giorpost
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lunedì 16 luglio 2018
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un "remake" di rocky 3 con attori e musiche ok
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Imbattuto campione dei mediomassimi, con uno score di 43 vittorie e zero sconfitte, William Hope detto Billy the Great ha tutto quello che ogni uomo sogna. Ma un turbolento passato, in buona parte trascorso in orfanotrofio, viene troppo spesso fuori attraverso il suo caratteraccio, incline a risse e facilmente provocabile.
In una concitata situazione del genere avviene l'irreparabile, che lo porta in breve tempo a perdere tutto, ad essere abbandonato dal suo manager e a cadere nel facile quanto evitabile autolesionismo,
Aiutato da un esperto ed umile allenatore di giovani dilettanti e spinto dall'amore per l'unica figlia (ancora piccola), Billy tenterà la risalita.
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Imbattuto campione dei mediomassimi, con uno score di 43 vittorie e zero sconfitte, William Hope detto Billy the Great ha tutto quello che ogni uomo sogna. Ma un turbolento passato, in buona parte trascorso in orfanotrofio, viene troppo spesso fuori attraverso il suo caratteraccio, incline a risse e facilmente provocabile.
In una concitata situazione del genere avviene l'irreparabile, che lo porta in breve tempo a perdere tutto, ad essere abbandonato dal suo manager e a cadere nel facile quanto evitabile autolesionismo,
Aiutato da un esperto ed umile allenatore di giovani dilettanti e spinto dall'amore per l'unica figlia (ancora piccola), Billy tenterà la risalita.
Difficile dare una giudizio su questo Southpow (USA, 2015), opera che spinge a due valutazioni: da un lato c'è la qualità visiva, musicale a attoriale, con un buon Gyllenhaal e un fantastico Whitaker, ma dall'altro c'è la banalità di una storia che, citazioni volute e richiami vaghi a personaggi simili a parte, pare essere il remake di Rocky 3, con tale Escobar (ma in Colombia si chiamano tutti così?) nelle vesti di Mr. T e Maureen -la piacente McAdams- a morire in una rissa al posto del mitico Mickey, alias Burgess Meredith.
Poi ci sarebbero anche dei buchi di sceneggiatura, ma a questo Antoine Fuqua ci aveva già abituati, soprattutto in Training Day.
Film da one shot: guardare una volta va più che bene. E non fosse altro che per il gigante (in senso interpretativo) Forest Whitaker.
A lui il voto più alto, 7.
Voto al film: 6.
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iuriv
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martedì 7 agosto 2018
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fare a pugni con sentimento.
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Costruito come un falso revenge movie, Southpaw in realtà mette in scena la ricostruzione di un uomo dopo una tragedia familiare. Non un brutto soggetto e in definitiva neanche un brutto film tenuto conto di tutto. Ma nemmeno un'opera riuscitissima.
Il punto è che Antoine Fuqua la butta un filo troppo sul sentimentale. Invece di esplorare a fondo i disagi del nostro Billy Hope e quelli dell'allenatore Titus Willis, il regista sceglie la via del melodramma, facendo capitare loro tragedie immani costruite attraverso evidenti forzature narrative e accompagnandoli verso un destino persino troppo ovvio.
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Costruito come un falso revenge movie, Southpaw in realtà mette in scena la ricostruzione di un uomo dopo una tragedia familiare. Non un brutto soggetto e in definitiva neanche un brutto film tenuto conto di tutto. Ma nemmeno un'opera riuscitissima.
Il punto è che Antoine Fuqua la butta un filo troppo sul sentimentale. Invece di esplorare a fondo i disagi del nostro Billy Hope e quelli dell'allenatore Titus Willis, il regista sceglie la via del melodramma, facendo capitare loro tragedie immani costruite attraverso evidenti forzature narrative e accompagnandoli verso un destino persino troppo ovvio. Lo scopo, non raggiunto fino in fondo, è quello di ricercare la lacrima facile, piazzando in mezzo una bambina piccola ma intelligentissima, una palestra per giovani strappati alla strada e qualche figura seghettata di cattivo attaccato al denaro.
Ne viene fuori un film che potrebbe anche funzionare, almeno a tratti, ma che si lascia ben poco dietro. Considerato quanto il pugilato sia stato capace di regalare al cinema è un po' uno spreco.
A proposito di boxe, forse l'aspetto più deludente di tutto il pacchetto sono proprio gli incontri. In passato si sono visti tanti tentativi, più o meno riusciti, di mostrare la noble art attraverso lo schermo. Dal piazzare la cinepresa sul cavalletto e insegnare agli attori a boxare bene, ai suggestivi piani sequenza di Creed.
Fuqua sceglie di dare ai combattimenti un taglio televisivo, alternandoli con delle strane soggettive. Poi tenta di coprire le imperfezioni delle sue decisioni con un montaggio a volte rapidissimo che spesso riesce addirittura a disturbare. Nonostante tutto Gyllenhaal, ottimo fuori dal ring, appare decisamente rigido con i guantoni, specialmente quando si copre con la spalla. Me ne intendo poco, ma tirare cazzotti in quella posizione non mi pare l'attività più semplice del mondo.
Alla fine, va detto, il crescendo emotivo comunque il regista lo porta a casa, quindi magari va anche bene così. Tuttavia non può certo ringraziare la colonna sonora, perché la pellicola è tormentata dal rap che, secondo i miei gusti, continua a non essere il genere ideale per certi tipi di storie.
Se volete sapere la mia, vedere Southpaw non vi rovinerà una serata. E' che ve lo dimenticherete presto.
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carloalberto
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sabato 18 settembre 2021
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il monomito del viaggio dell''eroe
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Il monomito del viaggio dell’eroe rievocato da Fuqua in una moderna favola ambientata nel mondo della boxe.
Lo schema è archetipico e si svolge in tre fasi.
L’abbandono del mondo ordinario, ossia la separazione traumatica dalla moglie e dalla figlia con la rottura di un perfetto equilibrio tra vita affettiva e lavorativa.
La discesa agli inferi, rappresentata dal trasloco dalla villa lussuosa con piscina in un misero monolocale in un quartiere degradato, in cui l’eroe si sottopone ad una serie di prove, che affronta e supera grazie alla figura di un mentore, un vecchio pugile dalla carriera spezzata che allena ragazzi di strada per salvarli dal loro destino.
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Il monomito del viaggio dell’eroe rievocato da Fuqua in una moderna favola ambientata nel mondo della boxe.
Lo schema è archetipico e si svolge in tre fasi.
L’abbandono del mondo ordinario, ossia la separazione traumatica dalla moglie e dalla figlia con la rottura di un perfetto equilibrio tra vita affettiva e lavorativa.
La discesa agli inferi, rappresentata dal trasloco dalla villa lussuosa con piscina in un misero monolocale in un quartiere degradato, in cui l’eroe si sottopone ad una serie di prove, che affronta e supera grazie alla figura di un mentore, un vecchio pugile dalla carriera spezzata che allena ragazzi di strada per salvarli dal loro destino.
L’abbattimento dell’ultimo ostacolo, il pugile boliviano che, approfittando della sua assenza, ha usurpato il titolo di campione del mondo, ossia il diabolico guardiano che gli sbarra l’unica via d’uscita dal baratro infernale, e la conseguente rinascita, con la riconquista dell’amore della figlia e del titolo perduto, a una nuova vita in cui si riforma, rinnovato, il vecchio equilibrio tra affetti familiari e ruolo sociale dell’eroe.
Jake Gyllenhaal incarna l’eroe, Forest Whitaker il mentore e Miguel Gomez il guardiano.
Il plot è prevedibile sin dall’inizio, in quanto allo schema del monomito hanno attinto e continuano ad attingere tanti sceneggiatori per confezionare prodotti simili, ma Fuqua non punta sull’originalità della trama bensì sulla performance attoriale dei due protagonisti, Gyllenhaal e Whitaker, come sempre all’altezza del compito, che in questo caso è quanto mai arduo, perché devono reggere sulle loro spalle tutta la drammaticità dell’azione, rendendo interessante una pellicola altrimenti scialba e banale assimilabile alla serie dei Rocky Balboa.
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claudiofedele93
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venerdì 4 settembre 2015
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fuqua manda la boxe al tappeto.
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Su Southpaw era possibile nutrire delle speranze, non molte, in tutta sincerità, ma un po’ era lecito crederci, forse perché i film sulla boxe riescono sempre a dare qualcosa in cui credere, un motivo per cui tifare il protagonista o un co-protagonista motivato al massimo, o perché l’America ha sempre visto in questo sport un modo attraverso il quale redimersi e cercare di andare oltre i propri errori, quasi fosse una via crucis con cui il protagonista di turno possa affacciarsi al mondo intero come un Cristo redento e iniziare una nuova storia, una vita ed imparare qualcosa dai peccati commessi in passato, dove una vittoria ha quasi un sapore di riscatto sociale e morale.
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Su Southpaw era possibile nutrire delle speranze, non molte, in tutta sincerità, ma un po’ era lecito crederci, forse perché i film sulla boxe riescono sempre a dare qualcosa in cui credere, un motivo per cui tifare il protagonista o un co-protagonista motivato al massimo, o perché l’America ha sempre visto in questo sport un modo attraverso il quale redimersi e cercare di andare oltre i propri errori, quasi fosse una via crucis con cui il protagonista di turno possa affacciarsi al mondo intero come un Cristo redento e iniziare una nuova storia, una vita ed imparare qualcosa dai peccati commessi in passato, dove una vittoria ha quasi un sapore di riscatto sociale e morale.
La vicenda legata a Billy Hope, pugile professionista imbattuto da più di quaranta combattimenti sul ring, è una come tante, che non fa della propria originalità un punto di forza, sottoponendo lo spettatore ad una storia di dolore, martirio e risalita sociale ed economica, umana e personale a cui ormai, probabilmente, siamo abituati da tempo. Billy, da campione imbattuto, vede andare tutto a rotoli dopo la tragica morte della moglie, dovuta ad una rissa nata dietro alle provocazioni di un giovane pugile colombiano in una serata di beneficenza; da questo momento in poi la vita di Hope prende una svolta improvvisa, questi cade nella depressione più nera, dimenticandosi persino di sua figlia. Allontanata, quest'ultima, dal padre a causa dell'instabilità e la natura violenta, privata di una famiglia ed una casa in cui abitare ed affidata ai servizi sociali, la piccola Maureen sarà il motivo per cui Billy tenterà di riprendere la scalata al successo e, motivato come non mai, non esiterà un istante a combattere sul ring per riavere sua figlia, la propria vita e vendicare sua moglie.
Dietro alla sceneggiatura di Kurt Sutter si celava un intreccio che poteva avere degli spunti interessanti, non inediti, certo, ma quanto meno essenziali per costruire una pellicola che sapesse combinare tutta una serie di elementi attraverso cui dare alla luce un qualcosa di tecnicamente valido e concreto.
Un vero peccato scoprire che i virtuosismi di macchina di Antoine Fuqua, regista che potremmo catalogare come demiurgo d'opere di serie B, semi-acclamato ed odiato dalla critica, ma sempre sulla cresta dell'onda, sebbene la scarsa qualità palese nei suoi lavori, rendano Southpaw un qualcosa di puramente prolisso e iperbolico sotto molti aspetti, distruggendo ogni cosa che di buono era possibile riscontrare in un film di genere sportivo.
Per non dilungarci troppo sui particolari o le motivazioni, vi basterà sapere che l'ultima fatica di Fuqua è incapace di mostrare non solo una sufficiente qualità, ma un minimo di spirito di originalità, un guizzo, un’identità, un’ idea tecnica o visiva, per cui varrebbe la pena soffermarsi a tesserne le lodi. E’ un prodotto capace di andare al K.O. dopo un solo round, che non prova nemmeno a rialzarsi, tant'è incapace di mostrare la sua vera natura e le sue vere intenzioni.
Se pensiamo, infatti, agli innumerevoli film ambientati nel mondo della boxe, dai più riusciti, quali Million Dollar Baby, a quelli che avevano tutta l'intenzione di mostrare lo spietato e cinico mondo del pugilato sotto un alone romantico, come Cindarella Man, per poi passare, per estensione, ad un semi capolavoro come Warrior, ci possiamo rendere tranquillamente conto che, tali storie, possedevano una luce propria grazie, unicamente, ai personaggi che vivevano all'interno di esse, grazie ai quali lo spettatore andava ben oltre un superficiale legame affettivo, cercando di analizzarne e scoprirne la natura dei molti protagonisti che hanno preso parte a questi lavori, i quali, belli o meno, hanno comunque dimostrato di voler descrivere con sincerità una storia tanto curata da apparire vera sullo schermo.
In Southpaw a non funzionare sono proprio i personaggi, oltre che i momenti e le situazioni, ad eccezione di alcuni comprimari che attingono a piene mani da produzioni recenti o fanno propri precisi cliché incredibilmente datati, e per questo motivo, al di là di lacune considerevoli nella sceneggiatura ed una regia che opera chirurgicamente nel modo sbagliato spezzando in toto la magia del Cinema, si arriva ai titoli di coda allibiti e delusi, per aver assistito, in definitiva, ad una mera occasione sprecata.
Capita, inoltre, che pellicole, pur non del tutto riuscite, si salvino grazie ad un cast affiatato o ad interpretazioni magistrali e sebbene Jake Gyllenhaal non si vergogni a mostrare muscoli e talento, la sua performance è anni luce lontana da quella prova strabiliante fatta ne Lo Sciacallo, questo perché, in sua difesa, va riconosciuto la complessità di interpretare un ruolo quasi sempre sopra le righe, tutt'altro che profondo, e arricchito da dialoghi a volte imbarazzanti e situazioni surreali. L'unico attore a convincere è Forest Whitaker, anche se ricalca la figura dell'allenatore burbero proprietario di una vecchia palestra in un quartiere semi-malfamato, brutta copia di quel Morgan Freeman che vinse l'Oscar nel capolavoro degli anni 2000 di Eastwood.
Southpaw è il peggior film di boxe degli ultimi anni, e pensare che il potenziale per presentarsi come una grande pellicola lo aveva tutto. In fondo, sono veramente pochi i registi possono vantare un cast di tal portata per un progetto di questo tipo, ma Fuqua riesce ad annientare ogni regola da rispettare nei film di pugilato e tutto ciò che di buono questa pellicola poteva dire su più livelli, rivelando tutte le pecche e gli errori del suo cinema, distribuendo di tanto in tanto un velato razzismo e annientando il pathos necessario per far si che il tutto coinvolga lo spettatore.
I primi venti, o, al massimo, trenta minuti, ad essere buoni, possono anche risultare accettabili, poi il tutto scivola in un vortice di non senso, incapace di indirizzare la storia in una precisa direzione, mettendo così tanta carne in tavola da creare un’indigestione visiva, causata anche da una sceneggiatura priva di momenti esaltanti ed una regia che, con semplicità, annienta quanto di bello, registi di altra risma, avevano realizzato sul ring negli scorsi decenni. Cercando, proprio con determinate riprese, di essere rivoluzionario ed originale, Southpaw cade al tappeto in modo pietoso, non porta rispetto alla memoria di James Horner, che sarebbe giusto ricordarlo per aver scritto colonne sonore di vera e rara bellezza e dimenticare il suo nome presente, qui, nei titoli di testa e di coda. Fuqua, ancora una volta, si mostra incapace di esprimere il meglio di se stesso ed il suo cinema rimane un’esclusiva personale, difficile da condividere e altrettanto ostico da ingerire, privo di quella sincerità e concretezza finale che porta a credere a quello che vediamo in una sala. Freddo e spietato, una delusione amara da buttare giù.
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