dandy
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martedì 12 aprile 2011
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a me è sembrato ambiguo.
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Da sempre abile a mostrare la verità nei suoi punti più scabrosi,qui Morris(che ha incontrato e intervistato alcuni dei militari condannati alle pene minori)risulta assai poco convincente.La ricostruzione in studio di molte situazioni umilianti o atroci(commentate dalla musica di Danny Elfman),oltre a introdurre una spettacolarizzazione inopportuna,risulta inutile di fronte al materiale autentico(se non ne aveva abbastanza,poteva limitarsi a fare un corto).E se è inevitabile che non avremmo mai una risposta a certe domande(come è potuto accedere,perchè nessuno ha cercato di impedirolo,in particolare le donne?) decisamente troppo spazio è dato alle giustificazioni dei soldati,in particolare alle soldatesse,simili a ragazzine che commentano marachelle,di tanto in tanto ridendosela pure.
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Da sempre abile a mostrare la verità nei suoi punti più scabrosi,qui Morris(che ha incontrato e intervistato alcuni dei militari condannati alle pene minori)risulta assai poco convincente.La ricostruzione in studio di molte situazioni umilianti o atroci(commentate dalla musica di Danny Elfman),oltre a introdurre una spettacolarizzazione inopportuna,risulta inutile di fronte al materiale autentico(se non ne aveva abbastanza,poteva limitarsi a fare un corto).E se è inevitabile che non avremmo mai una risposta a certe domande(come è potuto accedere,perchè nessuno ha cercato di impedirolo,in particolare le donne?) decisamente troppo spazio è dato alle giustificazioni dei soldati,in particolare alle soldatesse,simili a ragazzine che commentano marachelle,di tanto in tanto ridendosela pure.Non dicono una volta che sia una"mi dispiace per quello che ho fatto" e oppongono giustificazioni deboli,in particolare Lynndie England,che afferma di essere stata plagiata dal soldato Charles Garner(da cui ha anche avuto un figlio),e alla fine con una scrollata di spalle dice"Questa è la vita,bisona andare avanti!"Sebbene questo non faccia che accrescere lo shifo che si prova per gli intervistati,l'impressione che si ha è che il regista voglia dar voce a una nazione che abbia solo voglia di dimenticare piuttosto che condannare.Ad avvalorare questa teoria, nonostante i dubbi sollevati sul sistema legislativo americano,per cui la tortura pscicologica(i finti cavi elettrificati),le posizioni scomode e la privazione del sonno non sarebbero reato ma "S.O.P."("Standard Operating Procedure"),il fatto che non si faccia mai davvero luce sulle responsabilità dei potenti,che hanno favorito quando non imposto i metodi usati ad Abu Ghraib e Guantanamo.Come invece accade nel precedente e più incisivo "Taxi to the dark side",che mostrava l'inizio di tutta la storia nel 2002 con Dilawar e chi veramente ne fù responsabile.Comunque ha vinto il Gran premio della giuria di Berlino.Ed è giusto vederlo,ma è stato girato di meglio al riguardo.
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fabrizio dividi
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giovedì 11 settembre 2008
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cartoline dall'inferno
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Fin dai suoi esordi, Errol Morris si distinse tra i documentaristi per il modo di raccontare storie a partire da semplici interviste a camera fissa; da Gates of Heaven del 1978 con le sconcertanti descrizioni dei primi cimiteri per animali, attraverso le incredibili biografie contemporanee del cosiddetto DR Death, specializzato nella costruzione di macchine di morte per le carceri, e di Robert Mc Namara, cinico stratega della seconda guerra mondiale, tutti diretti a cogliere aspetti poco noti della realtà americana.
“Standard operativing procedure” racconta gli orrori del famigerato carcere di Abu Ghraib dal punto di vista dei protagonisti: i militari, uomini e donne, che diventarono famosi per aver immortalato alcuni detenuti iracheni torturati e uccisi, raccontano quei giorni commentando alcune foto scattate sul posto come souvenir e che li avrebbero successivamente fatti condannare al processo che subirono in patria sull’onda dello scandalo che ne seguì.
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Fin dai suoi esordi, Errol Morris si distinse tra i documentaristi per il modo di raccontare storie a partire da semplici interviste a camera fissa; da Gates of Heaven del 1978 con le sconcertanti descrizioni dei primi cimiteri per animali, attraverso le incredibili biografie contemporanee del cosiddetto DR Death, specializzato nella costruzione di macchine di morte per le carceri, e di Robert Mc Namara, cinico stratega della seconda guerra mondiale, tutti diretti a cogliere aspetti poco noti della realtà americana.
“Standard operativing procedure” racconta gli orrori del famigerato carcere di Abu Ghraib dal punto di vista dei protagonisti: i militari, uomini e donne, che diventarono famosi per aver immortalato alcuni detenuti iracheni torturati e uccisi, raccontano quei giorni commentando alcune foto scattate sul posto come souvenir e che li avrebbero successivamente fatti condannare al processo che subirono in patria sull’onda dello scandalo che ne seguì.
Lo stile di Morris è serrato ed ipnotico. Con l’ausilio di un sottofondo di musica minimalista che avvolge e appoggia i suoi primi piani con un maestoso crescendo narrativo, riesce far convivere emozioni e ricostruzione storica. La sequenza del riassemblaggio delle migliaia di immagini scattate da tre apparecchi diversi e la ricollocazione temporale a partire da alcuni “nodi” di eventi ritratti contemporaneamente raccontata dal perito del tribunale (ri)conferisce a livello estetico un ruolo primario dell’immagine istantanea; progressivamente deprivata del senso di “verità” la fotografia torna protagonista raccontando fatti, puri, essenziali, insindacabili. E in tal senso completa una ideale trilogia sulla veridicità dell’immagine unitamente Redacted di De Palma dove una videocamera svela le atrocità del conflitto e de “Nella valle di Elah” in cui un padre ricostruisce la natura bestiale del figlio suicida attraverso i brevi video salvati sul suo telefonino.
Ma è, come prevedibile, con i racconti in prima persona dei torturatori, dei quali si coglie un impressionante vuoto emotivo che supera ogni considerazione morale, che la “camera-bisturi” di Errol Morris lavora con precisione chirurgica. Occhi, gesti, tono monocorde ritraggono gli aguzzini nella loro anima più profonda, uccisa per sempre dalla guerra stessa. Le interpretazioni dei fatti stonano con la prova fotografica fin troppo evidente, e la loro realtà assume i contorni di un grottesco Rashomon.
Le rare intrusioni audio del regista sono riservate alle domande più intime e significative, e l’ausilio di inquadrature distorte e di fantasia (come il cappio utilizzato per Saddam, o una stanza invasa da coriandoli dei documenti distrutti) non fanno che accrescere la godibilità del film: il docufilm continua a crescere nelle mani di Morris, e non stupisce che sia stato un precursore del genere come Werner Herzog a credere per primo nelle sue possibilità.
Fabrizio Dividi
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