La vie en rose

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Un film di Olivier Dahan. Con Marion Cotillard, Sylvie Testud, Clotilde Courau, Jean-Paul Rouve, Pascal Greggory.
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Titolo originale La Môme. Drammatico, durata 140 min. - Francia, Gran Bretagna, Repubblica ceca 2007. uscita venerdì 4 maggio 2007. MYMONETRO La vie en rose * * * - - valutazione media: 3,36 su -1 recensioni di critica, pubblico e dizionari. Acquista »
   
   
   

Corpo, voce e performance

di Silver90


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martedì 14 aprile 2020

Una voce straordinaria, capace di raggiungere vette inimmaginabili, in un corpo troppo piccolo per contenerla, e un nome, che legato a quello della Francia li avrebbe portati molto in alto insieme: questa era Edith Giovanna Gassion, al secolo Edith Piaf, secondo il personale ritratto che ne fa il regista Oliver Dahan. La voce calda gliela diede il cielo, a lei figlia disgraziata di un’artista incompresa e di un contorsionista ubriaco, costretta a vivere in continue ristrettezze economiche e a fronteggiare le miserie dell’esistenza sin dalla più tenera età. Il nome Piaf, “uccellino”, le fu imposto invece dall’impresario Louis Lepleé quando la strappò dalla strada e la portò ad esibirsi nel suo locale, creando il personaggio della Mome. Da quel momento, quell’uccellino minuto, fragile e incredibilmente forte avrebbe spiccato il volo verso la fama e il successo, e mai avrebbe rimesso piede sulla terra, trascorrendo gli anni a venire a pencolo sui drammi di un’esistenza tormentata. Sarebbe morta di polio a 48 anni, dimostrandone almeno venti di più, consumata dalla droga e dagli eccessi...
In Francia, è risaputo, amano soffrire, ed è per questo che non deve meravigliare che una figura come quella di Edith Piaf, artista brava quanto sfortunata, continui a suscitare in patria profondo interesse e sincera commozione, al punto da aver ricevuto già due adattamenti cinematografici. La vita di Edith Piaf non fu affatto una lunga “vita in rosa”, come avrebbero meritato il suo enorme talento e lo spessore delle sue esibizioni canore – seppure spesso sostenute da una buona dose di morfina – quanto piuttosto una continua altalena fra alti e bassi, grandi gioie e immensi dolori, discese a rotta di collo e faticose risalite.
Quello di Dahan non è l’ultimo film biopic, memorialistico e celebrativo, sulla grande cantante, e non diversamente dagli altri, rappresenta l’ennesimo tributo dei francesi ad un mito nazionale e ad un’artista dal valore universale. Suggestionato dal contrasto stridente fra le precarie condizioni fisiche e le possibilità espressive della sua voce, Olivier Dahan non si è limitato a descriverne la storia, cercando di cogliere, un passaggio dopo l’altro e una sfaccettatura dopo l’altra, i diversi aspetti della personalità della Piaf: dall’infanzia serena presso il bordello della nonna paterna, circondata dall’affetto della prostituta Titine, a quella poverissima con il padre girovago; dall’adolescenza “borderline” vissuta con l’amica fraterna Momone chiedendo l’elemosina sui marciapiedi parigini, sino alla lenta consacrazione sui palcoscenici di tutto il mondo.
Proprio come in un lungo vagheggiamento, la regia di Dahan opera una selezione di immagini e contenuti, soffermandosi sulla breve ma intensa storia d’amore con Marcel Cerdan, pugile campione del mondo con cui la Piaf ebbe una relazione dal 1948 al 1949, e sulla fragilità esteriore e interiore dell’artista. Il film pretende di affrontare tutti gli eventi della sua vita, o almeno i più significativi, quelli che, uniti in un rapporto di causa-effetto, contribuirono a determinare la fisionomia del personaggio Piaf e l’eccezionalità della sua vicenda umana.
In accordo con la patina melodrammatica e un po’ stucchevole che avvolge il film sin dalle prime scene, c’è spazio anche per raccontare la malattia che stava per renderla cieca all’età di otto anni, per la perdita di una figlia ancora in età infantile e per una serie di drammi funzionali a ricreare un’atmosfera malinconica e fortemente rievocativa. Per lo stesso motivo, si preferisce invece sorvolare sulle vicende storiche del periodo, agitato dalle due Grandi Guerre e dalle tempeste economiche, e l’adozione di un punto di vista focalizzato sulla vita della protagonista non si traduce mai in un’analisi storica e sociale, se non intravista di scorcio. L'unico possibile riferimento alla Storia resta l’incontro con l’altra grande diva dell’epoca, Marlene Dietrich, risolto con una stretta di mano intensa e piena di significato in un teatro newyorkese.
All’intento francesizzante con cui Dahan ha diretto l’interpretazione accorata di Clotilde Coreau nei panni della madre della cantante o ha dato spazio a un pieno Gérard Depardieu nel ruolo dell’impresario Lepleé, va aggiunto un montaggio anomalo e a tratti confusionario che si sforza di seguire i picchi emotivi della protagonista e in cui l’ordine degli eventi non segue quello temporale, pur se ogni passaggio è la diretta conseguenza di quello precedente e la premessa di quello successivo. D’altra parte, se “Le vie en rose” è il capolavoro che ci aspetteremmo, gran parte del merito va a Marion Cotillard, attrice francese finora sconosciuta al grande pubblico, che è riuscita nel compito arduo di imitare alla perfezione la voce non certo suadente, e anzi sgradevole, della Piaf quotidiana, e a ricalcarne le movenze caratteristiche e le espressioni del volto, penetrando nell’intimo del personaggio e illudendoci di essere “realmente” la grande cantante. L’esibizione finale sulle note dolenti di “Je regrette rien” somiglia ad un ideale passaggio di consegne per la Cotillard, la cui luminosa bravura nell’interpretare il ruolo di una vita conferma quello che tutti, vedendo questo film, hanno capito: è per artiste come lei, e come Edith Piaf, che amare l’arte ha ancora senso.

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