dandy
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lunedì 18 aprile 2011
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estremo,e per chi ama davvero il cinema.
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Non basta certo essere patiti di film tipo "Die Hard" o "Transofmers",ma nemmeno di cose più d'autore o registi "seri" tipo Polanski,Hitchock o Visconti per poter apprezzare quest'opera.E si,perchè a mio parere chiamarlo semplicemente film significherebbe sminuirlo.Per chi il cinema non l'ha proprio nel sangue,seguire una trama ermetica che si dipana per oltre sette ore e nemmeno ha una conclusione(la storia si chiude com'era iniziata),e dove il solo fatto realmente movimentato è una bambina che si avvelena dopo aver ucciso il suo gatto sembrerebbe follia pura.E persino gli spettatori davvero appassionati di primo acchitto,ne ricaveranno un'impressione di presunzione e megalomania intellettuale che vorrebbe essere d'avanguardia.
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Non basta certo essere patiti di film tipo "Die Hard" o "Transofmers",ma nemmeno di cose più d'autore o registi "seri" tipo Polanski,Hitchock o Visconti per poter apprezzare quest'opera.E si,perchè a mio parere chiamarlo semplicemente film significherebbe sminuirlo.Per chi il cinema non l'ha proprio nel sangue,seguire una trama ermetica che si dipana per oltre sette ore e nemmeno ha una conclusione(la storia si chiude com'era iniziata),e dove il solo fatto realmente movimentato è una bambina che si avvelena dopo aver ucciso il suo gatto sembrerebbe follia pura.E persino gli spettatori davvero appassionati di primo acchitto,ne ricaveranno un'impressione di presunzione e megalomania intellettuale che vorrebbe essere d'avanguardia.Ma il solo modo per giudicarlo è vederlo.Letteralmente abbandonandosi all'universo di Tarr,dove la temporalità assume le caratteristiche della vita reale,divenendo irrilevante.Vicino in ciò più di tutti allo stile di Andy Warhol(non a caso è fotografato in uno splendido bianco e nero),proverbiale nel rubare frammenti al tempo.A detta del regista ci sono solo 150 inquadrature in tutta la pellicola: gli eventi spesso vengono mostrati senza stacchi(una camminata di 10 minuti,un ballo di quasi mezz'ora,quasi un'ora per introdurre il personaggio del dottore alcolizzato)creando una dimensione opprimente ma onirica,quasi fiabesca.Ambientata in un mondo oscuro e cupo,scandito dai minacciosi rintocchi delle campane,e meravigliosamente resa dall'ambientazione nella puzsta ungherese,continuamente spazzata dalla pioggia e dal vento.Dove due cialtroni coinvolgono in un'apocalisse solo possibile un'umanità smarrita, fatta di gente legata solo dalla disperazione o da rancori personali,ma che ancora si illude che qualcosa abbia un senso(e con cui alla fine si finisce per familiarizzare).L'idea di mostrare più volte alcune scene,riprese da diversi punti di vista sembra anticipare Gus Van Sant per il suo "Elephant".E c'è una piccola citazione da "Pinocchio"(la ragazzina che sotterra le monete convinta che germoglieranno se ben innaffiate).Suddiviso in 12 parti,rispettando la struttura del tango(sei parti cronologicamente avanti e sei indietro)e adattato dal regista(che avrebbe voluto iniziarlo nell'85)con Laszlo Krasznahorkai dal suo omonimo romanzo.Svariate scene furono frutto improvvisazioni(ad esempio le sbronze degli attori non furono simulate).Naturalmente qui da noi è difficilissimo vederlo:io l'ho trovato dopo più di tre anni di ricerche,miracolosamente sottotitolato in un italiano un pò sgrammaticato,e con almeno 40 minuti in meno.E ritengo che ne sia valsa la pena,nonchè che ci si trovi di fronte a un capolavoro di tutto rispetto.Un'opera unica e allucinante che richiede sacrifici enormi,ma non può lasciare indifferenti.
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martedì 3 novembre 2009
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bela tarr racconta il tempo e l'uomo.
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Satantango è uno deli ultimi "classici" d'autore, come possono esserlo i film di Tarkovskij o di Bergman, opere senza tempo e senza luogo che dimostrano quanto il cinema possa essere enorme e quanto importante per lo spettatore.
Satantango esalta tutte le possibilità del mezzo, con una ricerca visiva al servizio della descrizione e reinvenzione della realtà, con i pianisequenza, le carrellate, i primi piani e i campi lunghi, le sospensioni, gli incastri e ricorsi cronologici. Lo sguardo ipnotico del regista crea un mondo in cui immergersi e lasciarsi guidare, evita di dare un centro alla propria ricerca senza per questo rinunciare a raccontare delle storie. Le scene, in un bianco e nero dalla accuratezza fotografica, sono spesso lunghe diversi minuti, senza stacchi di montaggio: la macchina da presa si allontana dal soggetto umano per andare a cercare la pioggia, il muro scrostato, il campo vuoto, il dettaglio di un cuscino.
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Satantango è uno deli ultimi "classici" d'autore, come possono esserlo i film di Tarkovskij o di Bergman, opere senza tempo e senza luogo che dimostrano quanto il cinema possa essere enorme e quanto importante per lo spettatore.
Satantango esalta tutte le possibilità del mezzo, con una ricerca visiva al servizio della descrizione e reinvenzione della realtà, con i pianisequenza, le carrellate, i primi piani e i campi lunghi, le sospensioni, gli incastri e ricorsi cronologici. Lo sguardo ipnotico del regista crea un mondo in cui immergersi e lasciarsi guidare, evita di dare un centro alla propria ricerca senza per questo rinunciare a raccontare delle storie. Le scene, in un bianco e nero dalla accuratezza fotografica, sono spesso lunghe diversi minuti, senza stacchi di montaggio: la macchina da presa si allontana dal soggetto umano per andare a cercare la pioggia, il muro scrostato, il campo vuoto, il dettaglio di un cuscino. Quel che vediamo in Satantango non è mai semplicemente un oggetto o una persona, ma un oggetto o una persona indagati dallo sguardo della camera; che ruota attorno a loro, penetra nei pensieri e nelle espressioni di un volto ricordandoci che ciò che è manifesto ed esplicito è solo una frazione di quel che dobbiamo cercare.
Nella prima parte il mondo vive la sua ultima notte in attesa dell'apocalisse, ogni personaggio è colto nel trascorrere del suo tempo, misurato nelle gocce di pioggia, nello scandire dei secondi dato da un bicchiere ossessivamente dondolato su un tavolo di legno, nella contemplazione di uno spazio che diventa attesa solo perché osservato dal meccanismo cinematografico, necessariamente vivo.
La storia è quella di alcuni contadini perduti nelle pianure ungheresi, che vengono a sapere del ritorno di Irimias e Petrina, due componenti della comunità che erano stati dati per morti. I riferimenti ad Irimias fanno subito di lui un personaggio temibile e magico, un furfante ed un profeta. Del tango il film ha la struttura, suddivisa in dodici movimenti, sei in avanti e sei all'indietro, che diventano movimenti sull'asse cronologico. Al centro la danza satanica, in cui i personaggi si riuniscono in un unico luogo, prima di dover rendere conto delle proprie azioni.
Bela Tarr mostra come la forma possa essere il contenuto, come le scelte visive siano espressive e significative. Senza timore d'essere blasfemi si può dire che Tarr scolpisca il tempo così come Tarkovskij insegnava a fare.
un appunto sul finale: la lunga scena centrale del tango segna la fine della prima metà del film e porta successivamente ad un mutamento di prospettiva, dal punto di vista narrativo, con l'arrivo di Irimias. Il suo ruolo non è chiarito del tutto, sostanzialmente risulta essere un "inviato" della polizia mandato ad invenstigare e manipolare gli abitanti del suo paese in funzione di una non meglio specificata missione. Qui i caratteri e le finalità più inquietanti di Irimias vanno a confondersi con un ruolo più terreno e burocratico. Questo è forse il passaggio in cui le vicende locali sono più influenti nella configurazione del racconto. Da un'intervista a Tarr una frase che sembra fondere i due piani, e ironicamente sottolineare l'universalità del suo lavoro: In SATANTANGO, Irimias, which means "Jeremiah," is a messiah. All messiahs are generally just ordinary spies. There may be luckier nations on the Earth which have regular messiahs. I don't know any, but I haven't landed on the moon yet.
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noia1
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sabato 7 settembre 2019
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immagini emblematiche per un bianco e nero come
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Le vicende di una comunità di contadini ungheresi al crepuscolo dell’Unione Sovietica.
Un film epocale, un vero e proprio pugno nell’occhio per gli spettatori di metà anni novanta abituati alle solite trasposizioni su grande schermo dei vari videoclip di MTV, qui siamo completamente fuori da quei ritmi forsennati, ritmi per i quali forse non c’è un vero e proprio pubblico e che danno alla storia un’impronta personalissima, un’impronta che lo scaraventa fuori da qualsiasi canone di qualsivoglia epoca. Immagini che sono praticamente dei quadri da appendere in un museo, assolutamente inadatte al piccolo schermo – o meglio – sul piccolo schermo perdono completamente il loro significato, la propria potenza; la potenza di un bianco e nero sfruttato all’ennesima potenza.
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Le vicende di una comunità di contadini ungheresi al crepuscolo dell’Unione Sovietica.
Un film epocale, un vero e proprio pugno nell’occhio per gli spettatori di metà anni novanta abituati alle solite trasposizioni su grande schermo dei vari videoclip di MTV, qui siamo completamente fuori da quei ritmi forsennati, ritmi per i quali forse non c’è un vero e proprio pubblico e che danno alla storia un’impronta personalissima, un’impronta che lo scaraventa fuori da qualsiasi canone di qualsivoglia epoca. Immagini che sono praticamente dei quadri da appendere in un museo, assolutamente inadatte al piccolo schermo – o meglio – sul piccolo schermo perdono completamente il loro significato, la propria potenza; la potenza di un bianco e nero sfruttato all’ennesima potenza.
Béla Tarr naturalmente di cinema se ne intende, non parliamo dell’artista di turno che prende la macchina da presa e vuole fare le cose a modo suo, c’è idealismo più che spocchia perché il soggetto e la sceneggiatura sono praticamente da thriller solo che non c’è il solito esaltato che spara a destra e sinistra; Tarr è un artista vero che fa suo il mezzo e fa qualcosa di fastidioso, che ti immerge nel clima di noia e piattume dei protagonisti e che dà un fastidio da matti.
Un affresco a tutto tondo che non lascia da parte niente di quell’insano patologico scendere nella follia che prende le dure vite di chi è abbandonato a sé stesso. Certo per essere il film con il quale avrebbe dovuto cambiare il mondo a parer mio il regista ha fatto male i suoi conti, già dal punto di vista distributivo proporre una pellicola di sei ore è impossibile; se poi le tre parti in cui la suddividi sono rispettivamente di quattro ore, un’ora e tre quarti e un’ora e un quarto è facile intuire che l’intera operazione diventa a priori un errore. Sei ore di un capolavoro probabilmente dalle intenzioni fallite che forse il mondo lo cambierà (o lo sta cambiando) tramite però il passaparola di quei tre su cento che lo guarderanno.
In sostanza il vero e proprio capolavoro di un genio davvero troppo avanti coi tempi, un film, che poteva durare due ore ed essere uno dei più grandi noir in assoluto, rimischia invece le carte in tavola nel nome di un’opera estrema, una vera e propria lezione di cinema.
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