amedeo gavazzi
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giovedì 29 marzo 2012
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film cosi'..non si fanno piu'.
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CON LA MIA RECENZIONE,NON AGGIUNGO NIENTE A QUELLO CHE E'STATO DETTO DI QUESTO STUPENDO FILM.IO HO UNA VIDEOTECA E HO SCOPERTO CHE LA MAGGIOR PARTE DEI GIOVANI CHE LA FREQUENTANO,NON HANNO MAI SENTITO PARLARE DI:UNA VITA DIFFICILE.ESORTO I GIOVANI,QUELLI CHE VERAMENTE AMANO IL CINEMA,DI GUARDARLO.COSI'POTRANNO CAPIRE COME SI FA' UN VERO FILM.UN CARO SALUTO E UN FORTE ABBRACCIO(PURTROPPO)VIRTUALE AL GRANDE DINO RISI.CI MANCHI TANTO.
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renato c.
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lunedì 18 luglio 2011
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grande albertone e grande risi!
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Non è il primo film in cui l'Albertone non fa il comico (o almeno non del tutto in quanto con le espressioni tipiche della sua faccia non si può non ridere!) comunque, rispetto agli altri, è un film particolarmente serio! Sordi, a parte una piccola parte drammatica in "Addio alle armi" (in cui faceva il prete serissimo!) o faceva il comico vero e proprio o, in ogni caso, faceva la parte dell'italiano medio e accomodante. Qui invece fa l'dealista sicuro delle proprie idee e dei propri principi, che ritiene molto più importanti del denaro! Infatti, nonostante viva in brutto appartamento sotterraneo, senza cucina, dovendo mantenere una bella moglie ed un figlio in arrivo, non ci pensa due volte a rifiutare le somme ingenti offertegli dal "commendatore" (Claudio Gora) pur di non andare contro i propri principi e le proprie idee! Cosa che invece non fa il suo amico Franco Fabrizi.
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Non è il primo film in cui l'Albertone non fa il comico (o almeno non del tutto in quanto con le espressioni tipiche della sua faccia non si può non ridere!) comunque, rispetto agli altri, è un film particolarmente serio! Sordi, a parte una piccola parte drammatica in "Addio alle armi" (in cui faceva il prete serissimo!) o faceva il comico vero e proprio o, in ogni caso, faceva la parte dell'italiano medio e accomodante. Qui invece fa l'dealista sicuro delle proprie idee e dei propri principi, che ritiene molto più importanti del denaro! Infatti, nonostante viva in brutto appartamento sotterraneo, senza cucina, dovendo mantenere una bella moglie ed un figlio in arrivo, non ci pensa due volte a rifiutare le somme ingenti offertegli dal "commendatore" (Claudio Gora) pur di non andare contro i propri principi e le proprie idee! Cosa che invece non fa il suo amico Franco Fabrizi. Pur di essere coerente accetta anche la prigione, e quando, uscito, ha perso il posto di giornalista a causa della moglie e della suocera, accetta di studiare ingegneria anche se non ne è portato, ma fallendo agli esami! Solo quando la moglie lo lascia, e poi la vede a Viareggio in compagnia di un lestofante che lei non ama (e nemmeno lui ama lei ma le piace solamente come amante!) però ha il denaro per assicurare una sistemazione al figlio, allora decide di accettare le offerte del "commendatore" che gli fa si avere una fortuna economica, ma che lo tratta peggio di asino da soma! La scena in cui gli spruzza il seltz in faccia davanti ai vescovi fa vedere chiaramente qual'era la sua situazione! Ed anche la moglie, quando vede a quali umiliazioni è costretto decide di seguirlo e restare con lui anche quando perde il retribuitissimo "lavoro" dando un bel meritato cazzotto al "commndatore" sbattendolo in piscina!
Questo film, girato negli anni del boom economico, fa vedere come molti si sono arricchiti dopo la guerra speculando sulle macerie e sull'Italia da ricostruire, diventando ricchi senza guardare in faccia a nessuno e senza alcun principio morale! Mentre chi ha combattuto rischiando la vita e soffrendo il freddo e la fame si è proprio trovato a condurre "una vita difficile" pur di essere coerente con i propri ideali e le proprie aspirazioni!
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il cinefilo
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lunedì 18 luglio 2011
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il capolavoro mancato di dino risi
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"Tuo padre non ha mai cercato la fortuna"sono queste le parole che l'ex partigiano e giornalista Silvio Magnozzi(Alberto Sordi)pronuncia rivolto al figlio e la scena la considero,personalmente,il più bel punto del film in quanto riesce a inquadrare,più che in ogni altro dialogo ascoltato,la statura morale di un uomo che si propone di affrontare qualsiasi fatica la vita possa paragli davanti pur di non compromettere la propria integrità morale...il che,in un Italia sempre più opportunista e ideologicamente servile come quella che viene qui presentata in chiave satirico-documentaristica è un pregio di non poco conto.
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"Tuo padre non ha mai cercato la fortuna"sono queste le parole che l'ex partigiano e giornalista Silvio Magnozzi(Alberto Sordi)pronuncia rivolto al figlio e la scena la considero,personalmente,il più bel punto del film in quanto riesce a inquadrare,più che in ogni altro dialogo ascoltato,la statura morale di un uomo che si propone di affrontare qualsiasi fatica la vita possa paragli davanti pur di non compromettere la propria integrità morale...il che,in un Italia sempre più opportunista e ideologicamente servile come quella che viene qui presentata in chiave satirico-documentaristica è un pregio di non poco conto.
La"fortuna"(economica personale,ovviamente)a cui fa riferimento la frase è quella che chiunque ha la possibilità di abbracciare a patto di abbandonare ogni scrupolo o,piuttosto,quel senso di dignità che rende un uomo degno di essere chiamato tale ed è questo l'insegnamento che Magnozzi/Sordi vuol trasmettere al bambino e,più o meno indirettamente,anche allo spettatore.
Il quadro degli eventi storici(la lotta partigiana,la nascita della repubblica,il boom economico,l'attentato a Palmiro Togliatti)vengono più abilmente accennati che veramente approfonditi perchè quello che veramente conta è la singola figura di un individuo che,dagli ideali della resistenza anti-fascista a cui ha partecipato si ritrova catapultato,in pochi anni,in una realtà assai diversa da quella che sognava e dove persino gli amici idealisti"non sono più gli stessi"(quando vede uno di loro uscire,orrore,da un auto di lusso per offrire un passaggio a lui e alla moglie non riesce a non esprimere il suo disgusto).
Pultroppo,però,il profondo e inaspettato errore del film che emerge nell'ultima parte si poggia proprio su questo importantissimo dettaglio:un ex combattente per la libertà convinto(da non dimenticare,comunque,la brevissima scenetta in cui lui,per tentare di salvarsi la pelle davanti al tedesco armato,non esita a negare la sua appartenenza al gruppo di cui,in realtà,fa parte)nonchè un grande pensatore democratico che,di colpo,rinnega i suoi stessi ideali prostrandosi ai potenti per amore della sua donna non sarebbe nemmeno un assurdità eccessiva ma la rapidità surreale con cui Magnozzi,nelle ultime scene(dove egli molla un audace schiaffo al suo datore di lavoro)torna nuovamente sui suoi passi lo trovato,francamente,un"pugno nello stomaco"di semplicismo e anomala superficialità che,da un personaggio come quello che si era costruito,a colpi di ironia,per tre quarti della storia difficilmente mi aspettavo(mi ha sorpreso anche all'interno della normale logica del racconto,sebbene dalle deliziose venature comiche)...questo curioso passo falso è tale da precludere a UNA VITA DIFFICILE di Dino Risi il titolo di"capolavoro"(per quanto possa effettivamente avvicinarcisi).
In ogni caso la trovata(geniale)che mi ha divertito maggiormente è quella della cena dai monarchici la sera della vittoria della Repubblica che i due protagonisti vivono con immane imbarazzo.
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vincenzo carboni
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venerdì 13 maggio 2011
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amare è...
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Il finale di ‘Una vita difficile’, il gesto di riscatto del protagonista, è tutt’altro che una via d’uscita; forse un altro inizio dopo una fine, una porta che Silvio apre dopo essere stato messo davanti ad un muro una seconda volta: ora dal Commendatore, prima dall’ufficiale tedesco alla pensione della signora Pavinato. Si tratta –dicevo- di una via di fuga, l’ennesima, perché per Silvio Magnozzi si tratta sempre di scavalcar sé stesso (e così facendo Elena) per approdare di slancio in un territorio nuovo ma desertico, privato di ogni altro oggetto umano che sempre contagia; isolato, privato viepiù del privato, fino a privarsi dei propri affetti nella speranza di ritrovare nel deserto che farà di sé la propria parte più candida e autentica.
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Il finale di ‘Una vita difficile’, il gesto di riscatto del protagonista, è tutt’altro che una via d’uscita; forse un altro inizio dopo una fine, una porta che Silvio apre dopo essere stato messo davanti ad un muro una seconda volta: ora dal Commendatore, prima dall’ufficiale tedesco alla pensione della signora Pavinato. Si tratta –dicevo- di una via di fuga, l’ennesima, perché per Silvio Magnozzi si tratta sempre di scavalcar sé stesso (e così facendo Elena) per approdare di slancio in un territorio nuovo ma desertico, privato di ogni altro oggetto umano che sempre contagia; isolato, privato viepiù del privato, fino a privarsi dei propri affetti nella speranza di ritrovare nel deserto che farà di sé la propria parte più candida e autentica. La sua è una corsa a ritroso, in cui agli strappi in avanti fanno da contraltare il rimanere aggrappato alla purezza dell’infanzia, ai propri sogni di grandezza malinconicamente ingigantiti dalla necessità di doverli incessantemente perseguire: non è un figlio, non è una famiglia, ma il proprio romanzo, il proprio sogno di cambiamento dell’Italia, la propria battaglia contro la disonestà che pervicacemente resiste malgrado la promessa nata dal dopoguerra di un paese democratico che nascerà sulle spoglie di quello fascista. Di slancio fuggirà dal mulino (e da Elena), poi di nuovo si troverà con Elena a Roma; dirà di no alle lusinghe del Commendatore per rimanere stavolta dov’è (al giornale delle trentamila lire al mese), e resistere allo strattone di Elena che vuole portarlo verso una vita matrimoniale agiata e senza pensieri, serenamente depositata sugli allori degli affetti; si farà portar via dalla Storia il giorno del suo stesso matrimonio, e di lì finirà per essere ingoiato dal carcere. E poi… La vita difficile di Silvio è una rincorsa a vuoto, a pieno, sempre da un’altra parte, sempre nella direzione sbagliata. Il primo gesto, quello mancato, sempre accennato, mai portato a compimento, quello vigliacco, è sempre la fuga. Dopo esser scampato alla fucilazione nel giardino della pensione, il primo atto è quello di scappare: “Ma dove vai?” gli urla contro Elena. Correndo verso il mulino Silvio sbaglia ancora strada: “Ma dove vai? Di quà” lo corregge ancora Elena. Silvio è sempre da un’altra parte, ma trova una voce –quella di Elena- che lo trattiene, amorevolmente lo depone tra le proprie braccia, gli fa trovare costruito come per incanto uno spazio domestico (prima il mulino che da ‘casaccia da pecoraio’ assume quasi i contorni di un focolare, poi il rifugio romano) proprio lì dove non c’è una cucina, quindi non c’è un luogo. Elena si rende voce materna per quel figlio che decide di sposare proprio in virtù di averlo salvato, e che ora ha bisogno di essere salvato ancora: dalla propria assoluta mancanza di praticità, dalla paura di crescere, dalle intermittenze morali a cui Silvio tanto resiste quanto Simonini pragmaticamente cede. Elena si con-cede perché –spera- grazie a lei un bambino può diventare un uomo, recuperando -grazie ancora a lei- la mancanza. Si può ora iniziare la rincorsa del dopoguerra verso l’acquisizione di tutto ciò che manca: un automobile, una casa con cucina e acqua corrente, uno stipendio più che adeguato, un parrucchiere alla moda (il primo di Roma, quello di Simonini). Elena così facendo dedica la sua vita alla delimitazione del fallimento di un uomo-bambino, facendo così di Silvio il proprio stesso fallimento. Così Elena si innamorerà di colui a cui lei stessa piacerà affidare il proprio messaggio seppure rovesciato nel suo contrario: non si può colmare una mancanza, neanche per una ragazza di Cantuccio Ermenate in grado di spaccare la testa in due ad un tedesco. Fatto sta che ciò che non riesce ad avere da Silvio (stabilità economica e degli affetti, una nome, cioè tutto ciò che Silvio non si premura di dargli), cercherà di averlo dal signore di Lucca, quello con la Mercedes bianca, ma lasciando lei stessa la presa sul punto di avere tutto: allora via da Viareggio, e poi ancora cercare rifugio nella pensione di famiglia. Mi affido alle parole di Lacan che designò in questo modo il transfert in analisi, definizione che calza bene all’amore e al malinteso che genera essendo il rapporto sessuale (e l’amore) impossibile: amare è dare ciò che non si ha a qualcuno che non lo vuole. Sulla scia di un impossibile si snoda la storia di Elena e Silvio, un’impossibilità a riconoscersi, a darsi, ad essere l’uno il messaggio -seppure inverso- per l’altro, impossibilità questa che genera impossibilità nella misura in cui l’altro è chiamato ad essere il completamento magico di una assenza per sé, a prendere il posto di una mancanza che è questa stessa costitutiva e mai possibile da colmare: appunto impossibile. In questo meraviglioso malinteso che è l’amore -scontato questo e nient’altro- Silvio ed Elena si amano, si rincorrono da quando tutto cominciò… Con un ferro da stiro! Elena spacca il ferro da stiro in testa al tedesco scommettendo sull’amore, su quello che si ha e si dà a colui che lo vuole. Finirà per fare altrettanto nel famoso finale ma concedendo l’atto ora simbolizzato (un ferro che diventa una mano che si libera dall’abbraccio mortale dell’altro) a Silvio, arrivando alla consapevolezza incerta che si può avere solo ciò che non si ha da qualcuno che non può dartelo. Dopo questa sorta di epifania (l’ultima delle tante sotto forma di sguardo: è lo sguardo di Elena qui ad ammorbidire, svelarsi, cadere, confondersi, abbandonarsi per gli occhi di Silvio) possono finalmente essere insieme senza mai arrivare ad essere uno, ma uno accanto all’uno dell’altro.
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riccardo-87
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mercoledì 20 gennaio 2010
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ideali e realtà nel capolavoro di dino risi
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Questo è un film che racchiude in sé un mondo, come “ladri di biciclette” o “la grande guerra” – tanto per citarne due, a cui potrei far seguire una lista infinita di film con Anna Magnani, Vittorio Gassman, Vittorio De Sica, Aldo Fabrizi, Antonio De Curtis (Totò) o lo stesso Alberto Sordi - : non solo si attraversa un periodo storico che va dalla resistenza partigiana sotto l’occupazione tedesca alla caduta della monarchia sino al boom economico, ma mostra il conflitto interiore di una persona che, animato da nobili ideali, si trova a vivere in un mondo in cui non c’è spazio per questi e costretto quindi ad affrontare la realtà, fatta di corruzione, sottomissione e tanta ipocrisia morale. Un film che mette a nudo la società e l’essenza umana, per lo più forgiata nell’egoismo e nell’interesse: non c’è spazio per gli ideali se si vuole mantenere una famiglia, vivere e cercare nella nostra singolarità un poco di tranquillità economica e di evitare la povertà umiliante.
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Questo è un film che racchiude in sé un mondo, come “ladri di biciclette” o “la grande guerra” – tanto per citarne due, a cui potrei far seguire una lista infinita di film con Anna Magnani, Vittorio Gassman, Vittorio De Sica, Aldo Fabrizi, Antonio De Curtis (Totò) o lo stesso Alberto Sordi - : non solo si attraversa un periodo storico che va dalla resistenza partigiana sotto l’occupazione tedesca alla caduta della monarchia sino al boom economico, ma mostra il conflitto interiore di una persona che, animato da nobili ideali, si trova a vivere in un mondo in cui non c’è spazio per questi e costretto quindi ad affrontare la realtà, fatta di corruzione, sottomissione e tanta ipocrisia morale. Un film che mette a nudo la società e l’essenza umana, per lo più forgiata nell’egoismo e nell’interesse: non c’è spazio per gli ideali se si vuole mantenere una famiglia, vivere e cercare nella nostra singolarità un poco di tranquillità economica e di evitare la povertà umiliante. Un film che rovescia, similmente alla critica nietzschiana, la parvenza dei valori di cui si ammanta la società, sollevando il “velo di maja” - per citare Schopenhauer - che ricopre la loro ipocrisia e la loro vuotezza; la figura di Sordi, in arte Silvio Magnozzi, è spettacolosa, per quanto sia fondamentalmente perdente: riesce a rinunciare ad agi e ricchezze per se stesso, accettando di vivere a “pane e acqua” pur di restare fedele ai suoi principi , ma viene combattuto dalla vita stessa, incarnata prima dalla madre di sua moglie Elena, Amelia Pavinato, poi dalla moglie stessa che, pensando al futuro del figlio, e ferita da una conversazione con Silvio ubriaco, in cui egli le esplicita la fondamentale importanza che gli ideali hanno per lui, decide di lasciarlo. Sordi, piegato dalla perdita della famiglia, decide allora di “cambiare”, umiliandosi al servizio del commendator Bracci (Claudio Gora), pur di ristabilire il legame con Elena. Questa infatti accetta di ritornare con lui ma, visto in cosa consiste il “cambiamento” di Silvio, con uno sguardo comprensivo libera il marito dal giogo in cui lo aveva imbrigliato, seppure involontariamente, acconsentendo tacitamente ad accettare il prezzo del vivere in un modo che definirei “secondo il cuore e senza ipocrisia”, che comporta quasi necessariamente la povertà materiale e il disprezzo dei più, accecati dalla parvenza. Il finale è quindi un tentativo di apertura al futuro e alla speranza: Silvio con uno schiaffo fa letteralmente volare in piscina il commendatore, e poi si allontana dalla villa con la moglie sotto braccio e la testa alta, felice per la dignità ritrovata. Sordi, lontano qui dal suo solito ruolo di personaggio umanamente vigliacco, rappresenta una figura che io ritengo essere la più vicina mai ideata all’idea nietzschiana di “spirito libero”. Sono infine da citare scene rimaste nella storia del cinema italiano e mondiale, come l’esame di Sordi, i vari dialoghi tra Elena e Silvio ubriaco - prima e dopo la separazione dei due-, e la scena della caduta della monarchia.
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federer85
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lunedì 1 giugno 2009
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il miglior sordi di sempre
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Ho di recente rivisto ecce bombo di Moretti,in cui Nanni accusa un signore di mezza età al bar di qualunquismo alla Sordi.Ebbene,ora ne sono convinto,Nanni Moretti non hai mai visto(o almeno sino ad allora)"Una vita difficile".Come si fa ad attaccare Sordi per qualuquismo dopo un interpretazione del genere?!Certo,Alberto non aveva tessere di parito,però è certo ke il suo personaggio(grazie alla sua mirabile interpretazione)resterà per sempre impresso nella mente degli idealisti e puri di cuore che lottano per una Italia diversa.Grazie Alberto
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(di franco1944)
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toty bottalla
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martedì 7 aprile 2009
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film epocale di rara bellezza
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il film ci racconta un passaggio epocale di un'italia che passa dalla monarchia alla repubblica in mezzo a tante vicissitudini. come quasi tutti i film di ALBERTO SORDI, "una vita difficile" è un autentico capolavoro del cinema italiano, e non è certo il bianco e nero che rende tutto così affascinante, c'è molto di più, d'altra parte a fare quel cinema era DINO RISI, SORDI, MASSARI ecc. oggi lo fa MUCCINO e famiglia.
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memole
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giovedì 19 marzo 2009
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follia completa!!!
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Ma come si può TAGLIARE un film simile????
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vincenzo carboni
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giovedì 18 settembre 2008
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tutte le vite sono difficili
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Parlare di questo film per me è 'difficile' perchè mi descrive troppo. E' un film su un certo tipo di disadattamento. Il protagonista non sa vivere nel mondo, è scosso sempre tra il bisogno quasi infantile di riconoscimento di sè e la necessità di essere lo specchio dell'altro, di esserne il completamento. Non riesce a pubblicare il suo libro (che parla troppo di sè, è troppo investito delle proprie rivendicazioni sul mondo), non riesce a sostenere l'amore per la moglie non riuscendo ad essere ancora un uomo ma un bambino che ha continuamente bisogno di approvazione da lei. Nel mezzo c'è l'uomo che cerca di essere e acui non giungerà mai. Il finale (commovente) non mi fa pensare ad una via di uscita, anche se lo sguardo di Lea Massari su Sordi umiliato fa pensare ad una specie di epifania.
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Parlare di questo film per me è 'difficile' perchè mi descrive troppo. E' un film su un certo tipo di disadattamento. Il protagonista non sa vivere nel mondo, è scosso sempre tra il bisogno quasi infantile di riconoscimento di sè e la necessità di essere lo specchio dell'altro, di esserne il completamento. Non riesce a pubblicare il suo libro (che parla troppo di sè, è troppo investito delle proprie rivendicazioni sul mondo), non riesce a sostenere l'amore per la moglie non riuscendo ad essere ancora un uomo ma un bambino che ha continuamente bisogno di approvazione da lei. Nel mezzo c'è l'uomo che cerca di essere e acui non giungerà mai. Il finale (commovente) non mi fa pensare ad una via di uscita, anche se lo sguardo di Lea Massari su Sordi umiliato fa pensare ad una specie di epifania. Forse è possibile riconoscersi, riconoscere la parte 'monca' di noi, e quella dell'altro, e trovare un compromesso. Questa forse è la realtà ultima di ogni rapporto d'amore intenso. Sordi fa di tutto per non portare a compimento i suoi slanci (Perchè non porti una amica?) ma ritroverà che inevitabilmente qualcuno lo farà per lui. Si ritroverà marito (e quindi suocero), padre, eroe, sempre per caso. E a caso, procedendo a tentoni, riuscirà a tenere insieme la sua vita 'difficile', come maldestramente ognuno di noi riuscirà -bene o male- a fare.
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memole76
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martedì 27 maggio 2008
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capolavoro
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Che dire...forse la più bella interpretazione di Sordi,un film amaro,commovente e cinico..l'Italia che si rispecchia in un sol uomo con i suoi dubbie ed il suo entusiasmo.Magnifico.
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