Lubo è un artista di strada (uno “zingaro bianco”), appartenente al popolo nomade degli Jenisch, che, negli anni ’30, in Svizzera, furono vittime di pulizia etnica. Non vennero deportati, ma privati dei figli, come accadde in Australia agli aborigeni (vedi il film Rabbit-Proof Fence). Perché l’eugenetica, nel ‘900, non era patrimonio esclusivo dei nazisti, ma mentalità condivisa anche dai paesi più “civili”. Lubo, magnificamente interpretato da Franz Rogowski (senza doppiaggio), costretto alle armi, scopre a breve che la sua famiglia è stata distrutta: i bambini rubati e affidati da istituti, la moglie uccisa (involontariamente). L’evento innesca quella che il regista ha definito (in un confronto con il pubblico a Treviso) “la catena del male”. Intenzionato a sfogare la rabbia e, al tempo stesso, a ritrovare i sui bambini, arriva a uccidere e a mettere le mani su un tesoro (appartenente a un gruppo di famiglie ebree). Farà la bella vita in Svizzera, corteggiando ricche signore di cui odia le idee, senza smettere di cercare i figli, senza esito. Passano gli anni, si innamora di una cameriera, ma, quando è sul punto di ricostruire una famiglia, viene arrestato. Il finale non si racconta. Il film dura tre ore, che scorrono, tutto sommato, veloci, ma il film avrebbe tratto vantaggio da qualche sforbiciata, compensata magari da qualche fotogramma che legasse meglio la macro-sequenza svizzera con quella italiana. Troppo lunga e insistita, con un sonoro schioccante (le immagini ci vengono risparmiate per fortuna), la scena dell’omicidio. Lo scopo, ha detto Diritti, è stato quello di evidenziare il dolore e la rabbia quasi animalesca di Lubo. Ma sarebbe da ricordare la cifra stilistica di Diritti che, nel suo capolavoro “L’uomo che verrà”, toglieva il sonoro dalla scena di un eccidio ed evitava di sguazzare nell’orrore. Riscatta questa scena, che magari qualcuno apprezzerà per contrasto, quella iniziale, quando Lubo, travestito da orso, si esibisce in una piazza, poi, colpito (per finzione) dal domatore, cade, ed esce, molto lentamente, dalla schiena pelosa del finto plantigrado, sotto forma di donna-farfalla, quasi ad alludere alle metamorfosi che Lubo, astuto e intelligente, conoscerà nella sua esistenza. La sua forma che ci piace di più, anche la più credibile (perché muoversi in ambienti altolocati, spacciare origini austriache, con le inflessioni linguistiche che dovevano conseguire, non era decisamente facile) sta verso la fine, quando Lubo trova una fisarmonica che gli ricorda la sua prima vita, libera e felice, quando sapeva divertire e far divertire con la giocoleria, e con uno spirito gentile. La stoffa del documentarista, qual è stato Diritti in origine, emerge nelle ambientazioni degli interni, nell’accurata scelta delle location. Ma non ci sembra il suo film migliore.
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