Irene Bignardi
La Repubblica
Mister Hula Hoop (The Hudsucker Proxy in inglese, a testimoniare l’amore dei fratelli Coen per i titoli crittogramma) è stato prodotto sotto l’egida della Warner, che ha buttato nel pacchetto produttivo di Joel Silver, a fianco della genialità dei Coen, 25 milioni di dollari e la star Paul Newman nel ruolo del cattivo. E, caso mai restasse qualche dubbio, promuove definitivamente al rango dei grandi i fratelli Coen (Joel alla regia, Ethan alla produzione, ambedue alla sceneggiatura, con un piccolo ma fondamentale aiuto di humour da parte del loro amico Sam Raimi).
In patria, dove il film è uscito dopo l’anteprima al Sundance Film Festival in gennaio, la critica lo ha ammirato ma lo ha accusato di avere poco cuore. L’ho visto e rivisto, cercandolo. E ci ho trovato tante altre cose che, per una volta, del cuore si può fare a meno: intelligenza, divertimento, cattiveria (di quella buona), un elettrizzante senso del ritmo, una mano smagliante e spericolata nella regia, il senso (perduto) della favola, una struttura perfetta e rotonda della sceneggiatura: che restava invece il problema
irrisolto (e il fascino del non finito) di Barton Fink.
La Hudsucker è una megaindustria, simbolo ed epigome del grande capitalismo americano. Siamo alla fine del 1958, anche se i costumi tirano un po’ agli anni quaranta e le stanze del potere di Wall Street, reinventate dal genio dell’art direction Dennis Gassner, sono un po’ art déco un po’ mussoliniane (il cattivo non si chiama forse Mussburger?). Mentre Tim Robbins, neolaureato un po’ scemo di una sperduta università del Midwest, entra nel gigantesco grattacielo della Hudsucker per prendere un umilissimo lavoro, il presidente Waring Hudsucker (Charles Durning) esce dalla finestra del quarantaquattresimo piano, dopo una corsa sul tavolo del consiglio di amministrazione sotto gli occhi attoniti dei consiglieri.
Dramma societario. In caso di mancanza di eredi le azioni del defunto devono essere vendute al pubblico. Il diabolico vicepresidente Mussburger (Paul Newman) ha già però la soluzione: mettere al posto del defunto presidente un idiota(proxy sta per uomo di paglia) che faccia precipitare le azioni della società e consenta ai membri del consiglio di amministrazione di comprare le azioni del defunto e conservare il controllo. L’idiota è presto trovato nelle voragini dei piani bassi dove, in una riedizione di Metropolis e di Brazil, un esercito di miserabili lavora a ritmi da Tempi moderni.
Tim Robbins - perché di lui ovviamente si tratta - in effetti fa precipitare le azioni. Tanto che una giornalista premio Pulitzer (Jennifer Jason Leigh), metà Katharine Hepburn metà Rosalind Russell, parlata a mitraglia e fragilità ben nascosta, si introduce nella società - e nel suo cuore - in qualità di segretaria, per scoprire chi sia l”imbecille” (come titola il suo giornale). Ma l’anima candida di Robbins ha il suo asso nella manica: si chiama Hula Hoop e diventa il grande successo della Hudsucker. Si può sopravvivere all’invidia?
La resistibile ascesa di Tim Robbins finisce ben presto sul marciapiede. Ma siccome i Coen, non dimentichi di Frank Capra, hanno scelto il registro fantastico della fiaba, con tanto di angeli in scena e di cattivi più grandi del naturale, c’è anche un lieto fine, che arriva dopo una irresistibile corsa contro il tempo, questa volta in senso letterale (chi vedrà capirà).
Non sarà che la storia di Mister Hula Hoop - lieto fine incluso - può ancora una volta essere letta anche come la storia dei Coen, innocenti finiti con i loro bellissimi giocattoli nei pericolosi meandri della mega corporation Hollywood? Il quinto film dei Coen è un meccanismo spettacolare a orologeria, oliato da intelligenza, humour e stile. Con qualche limite: se buona parte dello smagliante risultato è frutto del lavoro congiunto con il direttore della fotografia Roger Deakins e il “production designer” Dennis Gassner, gli attori risultano spesso sacrificati dai gusto del
gioco a un virtuosismo esteriore e i personaggi hanno un versante nero che non li fa amare. Ma i Coen sanno muoversi con perfezione cronometrica tra gag comiche e tocchi allarmanti di realismo, tra caricatura da fumetto e espressionismo, tra Grosz e Bilal, tra il déjà vu di un patrimonio cinematografico che citano con funzionale divertimento e i documenti autentici di una stupidità umana sempre sorprendente (si vedano il vero e il falso nelle sequenze della travolgente carriera dello Hula Hoop). Forse il cinema dei Coen è anche e soprattutto il divertimento di due cinefili, forse è vero che manca di cuore: ma dietro il divertimento c’è una tagliente denuncia del sogno americano e un’avvincente lezione di economia dal vivo. E a consolazione dei Coen, si può ricordare che il maestro della commedia nera Biliy Wilder è sempre stato visto nella sua patria d’adozione come un inguaribile cinico senza cuore.
Da Irene Bignardi, Il declino dell’impero americano, Feltrinelli, Milano, 1996
di Irene Bignardi, 1996