Song To Song

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Cantami, o Musa Valutazione 4 stelle su cinque

di BenedettaSpampinato


Feedback: 811 | altri commenti e recensioni di BenedettaSpampinato
martedì 16 maggio 2017

È da più o meno sei anni che Terrence Malick sta cercando di dirci la stessa “cosa”. Negli ultimi film il sottile fil rouge che lega i flussi di coscienza dei suoi caratteri ha vagato lungo tutta l’America, snodandosi tra i più disparati luoghi di una terra così vasta e sconfinata da essere scandagliata nelle sue interiora e cercata proprio da chi vi è nato. Essa s’insinua tra i pensieri, dentro le case in puro stile Wright, tra le persiane e ogni atomo di pulviscolo atmosferico vacante che sembra pensato proprio per chi lo sfiora. Da The tree of life l’insistenza misticheggiante dell’odiosamabile professore di Filosofia-regista si rende ai significanti e si pone svelata allo spettatore. Aspettavamo incoscientemente una caduta di stile, la semplificazione del vuoto cosmico e interiore che molto gli preme e, invece, Malick ci ha regalato un lavoro apparentemente furbo e spensierato (il character poster anni Sessanta warholiano e un cast fin troppo colmo di belle statue dello star system), ma anche nella scelta del Pop la via che indica è la maestra perché, si sa, la realtà non è solo ciò che si vede.

I film di Malick cominciano lì dove comincia la vita: dal particolare all’universale. Avevamo lasciato Christian Bale in Knight of Cups con una voce fuoricampo che proferiva un “inizia”: Song to song si sposta in Texas, Austin. Il fulcro della trama in dissolvenza è un ménage à trois che non ha nulla a che vedere né con certi modelli truffautiani né con pesantezze da dreamers antiborghesi alla Bertolucci: siamo nel bel mezzo della vita, quella che si pone “nel frattempo”, e della crisi che essa porta dentro il suo sussistere con e dentro noi. Con Malick si danza fino alla fine dei tempi. Ryan Gosling (anche qui driver più metafisico che eroe) e Rooney Mara (la fidanzata di Carol che qui è invece l’opposta rivale della Blanchett) sono due musicisti fidanzati, ma lei ha una storia con il produttore, Michael Fassbender, tipico villain di ogni intreccio, che deciderà incautamente di sposare Natalie Portman, una giovane maestra che ora fa la cameriera. Una sorta di tetrangolo amoroso che poi diventa un intricato nodo da cui uscire, accompagnato da canzoni in sottofondo di diverso genere, una cinquantina circa.

Tutto il film è stato realizzato secondo un lento processo di found footage durato ben due anni, volto a caratterizzare la componente frammentaria della riproducibilità dell’opera, la macchina è sempre a spalla, perché i film di Malick sono come dei poetici documentari sull’anima e sul tempo. Ma non sono solo loro i protagonisti: in Song to song prendono vita diversi figure della musica occidentale che hanno fatto la storia (molte comparse sono state tagliate, come quella degli Arcade Fire), a cui Malick dona una luce che il mondo delle apparenze, a cui loro sono legati, gli ha negato. Johnny Rotten è un punk ormai maturo, Val Kilmer (il Morrison di Oliver Stone) e i RHCP compaiono solo perché sono umani esattamente come noi, incontrati lungo il cammino. Patti Smith è una vera e propria sacerdotessa, racconta il dolore per la perdita di Fred “Sonic” Smith: vengono inquadrate le sue mani, gli abiti, i lunghi capelli annodati. Iggy Pop dialoga con stupenda disinvoltura, mentre la cinepresa studia ogni singola mappatura del suo petto, ogni vena del corpo sembra raccontare una storia. Avremmo voluto vedere Bowie, sicuramente.

Song to songè un film sulla sacralità del corpo, sulla tangibilità delle cose, l’uso del sesso senza coscienza di amore che occulta la via della grazia e chiude gli occhi al sentiero scegliendo lo stato di natura. La macchina da presa va su, giù, è obliqua, riprende perfino il cielo da una macchina in movimento. La maestosa eleganza dei movimenti di Cate Blanchett, il suo modo di adagiare la mano sulla nuca così studiato accompagna l’andamento della camera che buca lo schermo perché invade lo spazio, così vicina com’è, ma non oltrepassa mai quella soglia inviolabile, oggi deturpata, che si chiama intimità. E poi la fede, la ricerca di senso abiurata ogni giorno, dimenticata, quando la natura (a differenza di quella del barbarico von Trier) non vive di inquietanti silenzi, ma emerge come presenza per suggellare l’origine dell’eterno flusso del tempo. Essa è impressa dall’immancabile meravigliosa fotografia di Lubezki (adesso anche compagno di Iñárritu) e dai suoi sterminati widescreen, senza i quali i film del regista sarebbero ormai impensabili. La narrazione si è assottigliata, è “orizzontale”, elementare, la sceneggiatura è scarsa, dimentica dell’inflazionato lirismo eliottiano da blank verse, eppure accostarsi a un’opera di Malick significa ancora mettere in luce un complesso processo in fieri, un inarrivabile labor limae (è tutto un lavoro di post-produzione, la pellicola si estendeva per ben lunghe otto ore!). Significa approcciarsi a un sistema di pensiero entro cui lievemente sprofondare e uscirne purificati da riferimenti filosofici. L’irrequietudine contrastata di far entrare quella “cosa” che va cercando i protagonisti aleggia in ogni “dove”: la trama, la vera trama si svolge in un altrove sempre celato, nascosto tra le buone cose di pessimo gusto, per dirla con Gozzano. Solo la tristezza riesce a far sentire viva la protagonista, mentre la logica svanisce in un intersecarsi di voci, ricordi, passato e presente si sovrappongono. Il cinema è vita e la vita è il cinema. La casa a cui tendono ignari i personaggi è sempre la stessa: il “posto” di Gosling è quello di Affleck, di Bale: ritornare alla terra, perché solo il desiderio di vivere quei days of heaven spalanca alla vita, che era lì, sottesa, da sempre.

Sembra che non sia accaduto niente, ci si è assentati, perché la vita è una dispersa silloge di frammenti, un’antologia lirica alla perenne ricerca di un originale assente, un trovarsi per caso mentre accade il Creato. Cos’è quest’ossessione per la trama? Possiamo riuscire a trovare una nota che leghi tutti i fatti della nostra vita? Sono queste le domande che si auto-pone il regista riproponendole a chi deciderà di pagare il biglietto, ma è già ben conscio che la vita ha bisogno di un’interpretazione. Alla lunga, le immagini che rimangono impresse sono frammenti di tramonti, di mani in contatto, di incontri e ritorni, perché in fondo cerchiamo qualsiasi forma, almeno una, per attaccarci alla terra e ugualmente distaccarci dalle forme che la trattengono. Malick è il raro esempio di un artista che non ha dimenticato la lezione di James Joyce. Capace di uscire da quell’Io che siamo soliti costruirci attorno, egli può fare di tutto e può farlo sempre da Terrence Malick. Calcare spesso sullo stesso punto non è sempre lezioso manierismo. Come accade probabilmente agli spiriti più attenti alle evoluzioni del tempo, Malick è stato a lungo in silenzio, ha scelto di fermarsi e attendere il suo momento per raccontare ciò che aveva da dire. Forse è troppo presto per capire il suo cinema, forse è tardi. C’era chi usciva disgustato dalla sala, chi annoiato, dubbioso o in lacrime, ma questo è già qualcosa. Dimostra che un certo cinema riesce a smuovere dal di dentro i ricordi e Malick, che dal canto suo ha superato i settant’anni, ha veramente a cuore questa “cosa” che si nasconde dappertutto e dappertutto è presente, come una parola mai detta, rimasta eternamente pensata, ma riproponibile ora, hic et nunc. È una questione di scelte, lasciatelo cantare.

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