Nel 1800 se una donna rappresentava un problema per i canoni della società patriarcale del tempo la rinchiudevano in manicomio grazie a medici compiacenti o soltanto ignoranti con la diagnosi facile di “isteria”. Le “credenze scientifiche” sono davvero così rigorose? O risentono anche quelle, tante volte, del clima culturale, etico e morale di un’epoca? È superfluo sottolineare che di passi avanti ne sono stati fatti indubbiamente. Oggi una donna che non corrisponde abbastanza a certo immaginario maschile non è inviata in un ospedale psichiatrico, ma è più probabile che finisca ammazzata da mariti, compagni, fratelli o padri.
Sussistono però alcune similitudini dure a morire. Rimane ancora oggi lo stigma della “malattia mentale”. Per esempio sovente oggi le persone “affette” da problematiche mentali o psicologiche degenti presso le rsa psichiatriche o le strutture riabilitative psichiatriche cosiddette vengono, in diversi casi, puntualmente dimenticate dai familiari perché continua a non essere molto accattivante l’idea di avere un parente stretto ricoverato in certe strutture sanitarie di “riabilitazione e cura”. Per non parlare poi dei pregiudizi che ancora oggi gravitano sulla “malattia mentale” circondata com’è da un alone permanente di compatimento o di paura.
E poi Jean-Martin Charcot medico e personaggio controverso sotto diversi aspetti, tramandato dai manuali come un grand’uomo di scienza, curava l’«isteria delle donne» che poi non era soltanto delle donne a ben vedere come lo stesso Charcot si premurò di osservare. Scoperta però che non suscitava lo stesso interesse morboso nell’opinione pubblica, evidentemente.
Questi era famoso anche perché presentava questo genere di “varietà didattici” durante i quali provocava “attacchi isterici” attraverso l’ipnosi alle donne che aveva in carico. E per dimostrare cosa esattamente?
Sappiamo che lo stimato neurologo fu artefice di scoperte fondamentali nel campo della neurologia e anche la psichiatria deve molto ai suoi studi. Senza Charcot, forse, e dico forse non avremmo avuto nemmeno Freud con tutto ciò che quest’ultimo rappresentò nel campo della psicologia e non soltanto. E tuttavia, da profano mi chiedo se certe esibizioni siano davvero così necessarie per il progresso di certa scienza. Si può giustificare tutto in nome dell’evoluzione scientifica? In qualsiasi campo, voglio dire. Senza certe torture o vari altri abusi sulla persona ne sapremmo oggi di meno in tema di isteria e di disturbi di personalità assortiti?
Se dovessimo dare retta a Thomas Kuhn dovremmo azzardare che Charcot e i suoi metodi erano influenzati da fattori sociali, culturali e storici tipici del suo tempo. Il paradigma scientifico all’interno del quale operava Charcot non era oggettivo, né neutro, dunque, ma questa constatazione basta a discolpare coloro che si rendono protagonisti di certe macroscopiche violazioni dei diritti delle persone? Il luminare illustre è da considerarsi vittima innocente del clima etico e morale del suo tempo, quindi? E il cambio di paradigma che segue o che è contemporaneo al cambiamento del contesto storico e sociale di un’epoca necessita ineluttabilmente del sacrificio di individui o di interi gruppi sociali? Anche la scienza ebbe bisogno delle sue martiri?
E qual’era il quadro di riferimento che guidava Charcot e gli altri scienziati del suo tempo mentre pensavano e affrontavano i problemi delle malattie neurologiche e mentali/psicologiche?
Quello che sappiamo con certezza è che la morale del tempo non si faceva scrupoli di utilizzare delle donne, neanche sofferenti in diversi casi di patologie conclamate, molto probabilmente, a fini sperimentali essendo le donne nel loro complesso considerate alla stregua di meri oggetti o proprietà di cui gli uomini avevano il diritto di disporre a loro piacimento e impunemente.
Mi piace credere che l’anomalia che mise in crisi o in discussione il paradigma dominante charcottiano, per così dire, fu proprio, forse, lo sfruttamento bieco della debolezza delle donne del tempo utilizzate impropriamente a fini sperimentali proprio in virtù di una certa visione del mondo che riduceva di fatto le donne in schiavitù soprattutto quelle degli strati sociali più indigenti. E ironia della sorte o della scienza fu Freud stesso, prima allievo entusiasta del maestro, che provocò la crisi del sistema charcottiano e dunque che diede vita ad una rivoluzione scientifica in senso kuhniano, quando abbandonò il metodo dell’ipnosi per sostituirlo con quello delle libere associazioni. Non credo che il cambio di paradigma freudiano fosse dettato dalla pietà umana verso certa condizione femminile (o forse sì, chissà). È semplicemente più verosimile che Freud, studiando, osservando, sperimentando si accorse dell’inutilità dell’ipnosi per la cura dell’isteria, ma più in generale valutò che il metodo delle libere associazioni era più adeguato nel suo complesso a far affiorare contenuti inconsci in modo più produttivo e durevole. E non mi risulta che abbia seviziato qualcuno per giungere a questa conclusione.
Di sicuro qui Charcot ne esce a pezzi oggettivamente e non potrebbe essere altrimenti vista la sensibilità moderna acquisita. In effetti, emerge qui come una sorta di gagà un po’ frivolo e molto indifferente proprio verso le pazienti che dovrebbe curare cui prescrive laudano e bagni ghiacciati e isolamento.
Ma tutti gli uomini fanno una pessima figura, tanto sono rappresentati come pervertiti, erotomani e stupratori o nella migliore delle ipotesi come padri padroni. Certi contesti borghesi sembrano, nell’approccio con le loro donne, altrettanti manicomi seppure un po’ più raffinati.
Tra le sequenze che mi hanno impressionato c’è quella del ballo in maschera. “Le pazze” vengono accolte dal pubblico, e maschile in particolare, con un interesse derisorio oppure libidinoso. “Le pazze suscitano desideri mai confessati, come si addice al codino di ogni epoca, in uomini che senza esitazioni si sentono autorizzati ad approfittarne e senza provare sensi di colpa o vergogna “perché tanto sono donne e pure pazze”.
Spero non appaia irrispettoso il parallelo, ma certo approccio abnorme di certi uomini verso le donne mi ricorda un po’ certi metodi che i nazifascisti applicavano sugli ebrei o su altre stirpi giudicate “inferiori” e verso le quali non provavano alcun senso di umanità. Per i fascionazisti si trattava soltanto di uomini donne e bambini considerati non più esseri umani, ma inutili pezzi di carne da mandare al macello o sui quali sperimentare senza alcuna pietà. Tra certi uomini (o scienziati, cosiddetti) che odiano le donne e i nazifascisti in effetti il confine può essere molto sottile.
Quindi, sorvolando sull’aspetto tecnico, direi: bello il film. Brava Mélanie Laurent. Andrebbe recuperato in qualche modo questo film perché è, comunque la pensiate, un film importante anche per le riflessioni che stimola su scienza ed etica.
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