marina
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venerdì 31 maggio 2024
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una giovane deledda molto borghese, poco brutta e per nulla nuorese!
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Il film “L’amore e la gloria. La giovane Deledda” uscito recentemente sugli schermi sardi ed italiani ha avuto non solamente una promozione e un sostegno "istituzionale", non comune per le produzioni di opere cinematografiche realizzate in Sardegna ma, e questo forse sorprende di più, ha anche visto una pressoché totale acquiescenza dei media sardi che, anche quando non ne tessono lodi sperticate (come pure talvolta fanno), non hanno mosso alcuna critica a questa opera che mira scopertamente a raccontare l’apprendistato della giovane e intraprendente ragazza della Sardegna interna verso la gloria e il successo letterario che la porterà sino a Stoccolma. Se Grazia conoscerà anche la delusione amorosa, inoltre, non le mancherà il principe azzurro che, con un happy end non consueto nei suoi romanzi più noti, le garantirà anche una serena vita coniugale.
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Il film “L’amore e la gloria. La giovane Deledda” uscito recentemente sugli schermi sardi ed italiani ha avuto non solamente una promozione e un sostegno "istituzionale", non comune per le produzioni di opere cinematografiche realizzate in Sardegna ma, e questo forse sorprende di più, ha anche visto una pressoché totale acquiescenza dei media sardi che, anche quando non ne tessono lodi sperticate (come pure talvolta fanno), non hanno mosso alcuna critica a questa opera che mira scopertamente a raccontare l’apprendistato della giovane e intraprendente ragazza della Sardegna interna verso la gloria e il successo letterario che la porterà sino a Stoccolma. Se Grazia conoscerà anche la delusione amorosa, inoltre, non le mancherà il principe azzurro che, con un happy end non consueto nei suoi romanzi più noti, le garantirà anche una serena vita coniugale. Queste vicende biografiche, d'altronde, sono già "spoilerate" dal titolo assolutamente “parlante”, quasi da materia agiografica. Un titolo che, è bene dirlo subito, non risulta particolarmente incisivo se si pensa che ricalca quasi in toto (La gloria e l’amore) quello, nella traduzione italiana, di una serie spagnola ambientata negli anni ’20 del Novecento e trasmessa da Rai Premium nel gennaio/febbraio del 2019. All’occhio attento dello spettatore emerge un primo dato perlomeno discutibile (soprattutto se si parla della Deledda e dei suoi anni nuoresi): la totale assenza di Nuoro. Non solo della sua realtà urbana, certo profondamente cambiata dalla fine dell’Ottocento (anche se non sono poche le possibili location che rimandano a quel periodo storico anche nella Nuoro contemporanea!), ma anche del territorio di Nuoro che la giovane Deledda, lungi da essere una reclusa come qualcuno vorrebbe, conosceva molto bene anche perché (siamo ben informati su questo!) Grazia, nella sua giovinezza, girò i paesi e le campagne del Nuorese accompagnata dal fratello Andrea che, per quanto gli fu possibile, assecondò gli interessi e le aspirazioni della sorella minore. Tale mancanza è evidenziata non solamente dai lunghi (e talvolta noiosi e didascalici) interventi fuori campo durante i quali, con voce talvolta esageratamente impostata, la protagonista, impersonata dall’esordiente Marisa Sanna, legge le lettere che la Deledda inviò ai suoi molti corrispondenti negli anni che vanno, più o meno, dal 1888 (anno del suo esordio letterario) al 1900 (data del suo matrimonio e del suo trasferimento a Roma) ma anche dai primi e primissimi piani, non sempre felicissimi, specialmente quando gli attori sono in movimento. Si potrà eccepire che tale predilezione è funzionale allo scarso budget a disposizione della produzione; rimangono tuttavia enigmatiche le scelte di girare il film quasi interamente nel Campidano e di rappresentare le “gite” fuori porta della Deledda giovinetta non con gli occhi di Grazia stessa, che pure descrisse con struggente intensità gli aspetti più intimi della campagna nuorese, ma con quello, si direbbe, di una signorina borghese del Continente, tuttalpiù presa da nevrotiche risatine e da inquietudini salottiere. Non quindi distese di cardi e lecci secolari, ma ambientazioni (e magari anche sensuali turbamenti) degni di "Colazione sull’erba" di Manet o di qualche vibrante quadro campestre vittoriano o edoardiano rappresentato da James Ivory (si pensi ai picnic di "A Room with a view"). In altre parole la Deledda, le sorelle e i fratelli e persino il padre (a parte una madre semimuta e alcune figurine caricaturali che vagamente rappresentano il resto del parentado) sembrano immersi in una dimensione borghese e “continentale” che poco ha a che fare con il contorno popolano e ruspante dei servi talora colti a parlare in sardo (quasi mai, tuttavia, si sente il nuorese, ma solamente altre varietà linguistiche del circondario, come se ci fosse stata una vera e propria “censura” nei confronti di tutto quello che poteva rimandare alla lingua e all’ambiente più intimo della giovinetta). Quasi non si capisce, dunque, per quale motivo la regista scelga di introdurre il tema della diglossia della scrittrice (uno dei suoi crucci più grandi, specialmente nei lunghi anni di “acquisizione” dell’italiano!) dal momento che Grazia e la gran parte del suo ambiente familiare sembrano usciti da una commedia borghese di fine Ottocento più che da una casa padronale di "Santu Predu" (il quartiere storico dei pastori ricchi di Nuoro). La scena è quasi interamente occupata da una graziosa, elegante signorina di buona famiglia che si esprime sempre in un italiano aulico, incapace di parlare sardo, dal momento che risponde in italiano anche quando qualcuno, per l'appunto, le si rivolge in sardo, e che pare quasi voler affermare il suo essere tutt’altro che brutta anche quando ribadisce di non avere alcuna grazia. Forse la regista Maria Grazia Perria avrebbe potuto “osare” di più e, visto il casting a cui si diede un grande risalto nella stampa sarda, se si voleva indugiare sulla mancanza di avvenenza della nuorese, si sarebbero potute fare altre scelte o, magari, cercare una maniera meno leziosa di agghindare un’attrice tutt’altro che sgradevole dal punto di vista meramente estetico. Peccato perché in fondo qualche idea buona e qualche possibile approfondimento cinematografico della materia deleddiana si intravede bene in questa pellicola. Una delle poche cose che, in effetti, funziona è la scelta di inframezzare la storia della scrittrice con le vicende tratte dai suoi primi libri. Per quanto anche alcuni di questi “inserti” sembrino strumentali a introdurre un po’ di verve in una narrazione inutilmente lenta e lunga, l’accenno all’amore fortemente intriso di carnalità tra Pietro Benu e Maria Noina, i protagonisti di "La Via del Male" (romanzo uscito nel 1896 ma lungamente rivisto dalla Deledda almeno sino al 1916) costituisce una sorta di “cameo” che, forse, vale il prezzo del biglietto, non fosse altro per la dimostrazione plastica delle potenzialità dei romanzi della Deledda anche in campo cinematografico. In queste poche sequenze, pur completamente recitate in italiano (un italiano da “doppiaggio”, quindi totalmente asettico), emerge la forza della narrazione deleddiana e gli sguardi e i baci degli attori (qui davvero convincenti e quasi in uno stato di “grazia”) sono quelli ai quali ci hanno abituato le pagine più belle dei grandi romanzi deleddiani. Una sensualità prorompente per quanto solo allusa dalla Deledda (si pensi a quanto questo tema colpì D.H. Lawrence) che è mirabilmente espressa nei pochi secondi in cui i giovani si guardano e si baciano con passione. Ecco, forse quei pochi secondi di film, mostrano quanto la Deledda ancora attenda una trasposizione cinematografica non oleografica e bozzettista come, purtroppo, è anche quella di questo film che, tuttavia, ha il merito di riportare all’attenzione del grande pubblico una scrittrice spesso mal compresa dal pubblico e dalla critica italiani. La produzione (che sembra avere avuto un peso specifico molto superiore alle scelte della regista) avrebbe potuto lavorare a una trasposizione scenica rispettosa della specificità e della profonda modernità della scrittrice dando, magari, maggior spazio al lavoro di traduzione, compiuto dalla Deledda, del mondo sardo colto nel passaggio traumatico tra la fine di una società preindustriale e una modernità che non riesce a dare risposte coerenti all’uomo contemporaneo, ma ha invece scelto una via più semplice (anche se, credo, sostanzialmente fallimentare) che ci presenta lo stereotipo di una giovane scrittrice "ad usum turisticum et Continentis", una Deledda che forse sarebbe piaciuta a Benedetto Croce e a Luigi Pirandello ma certo non a Attilio Momigliano o, in tempi più recenti, a Luigi Baldacci e a Geno Pampaloni che, pur non sardi, ebbero il merito di cercare capirla (cogliendo la sua eccentricità rispetto al paradigma letterario italiano) più di quanto non si faccia in questa pellicola, tutta sarda (caratteristica ribadita in fase di promozione del film quasi fosse, di per sé, un titolo di merito!). Questo nonostante oggi non manchino strumenti teorici e critici per riflessioni ed approfondimenti assai meno banali.
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