Il primo pensiero che ho avuto uscendo dalla sala al termine della proiezione di "Amoreodio" è stato: "E' un film fatto bene".
Non credo sia stato facile per il regista Cristian Scardigno portare sul grande schermo un’opera prima ispirata al delitto di Novi Ligure. Non tanto perché è un fatto di cronaca nera che ha conservato intatta negli anni la sua capacità di inquietare, ma è ancor più complesso se si cerca di interpretarlo entrando nei meandri della mente degli artefici della strage.
Scardigno riesce con bravura ed efficacia a rappresentare non solo il disagio giovanile (anzi ricondurlo solo a questo mi sembra riduttivo), ma coglie in pieno il meccanismo che c'è dietro a questo "disagio" ossia una società malata di cancro le cui metastasi sono il narcisismo, il desiderio esasperato di protagonismo, di rendersi autori di "qualcosa di grandioso" per sfuggire ad un anonimato che non è tanto sociale o giovanile, ma soprattutto animico. E' questo che arriva grazie anche all'interpretazione dell'attrice la bravissima Francesca. Ferrazzo che riesce a trasmettere il vuoto d'anima di Katia/Erika, quell'apatia patologica che ne rallenta i movimenti, il contesto, che la isola nella scuola, in casa, in famiglia e nei confronti di tutto ciò che la circonda. Il regista ha l'abilità di cogliere questa tendenza che da allora non ha fatto altro che avanzare trovando terreno fertile, rispetto al 2001, nei social network, che vanno ad allargare ancor di più quel vuoto. Il film in 100 minuti riesce a mostrare la mercificazione, la strumentalizzazione del corpo, dei sentimenti, del complesso dello straniero mostrando come dal 2001 al 2014 il cancro abbia dilagato. L'esasperazione contro gli immigrati, il narcisismo patologico, un vuoto di valori che ogni giorno diventa più assordante. Il tutto accompagnato e scandito da un'azzeccatissima musica in sottofondo. Una parola a parte meritano gli attori bravissimi, in particolare la Ferrazzo che attraverso il suo sguardo gelido rende impossibile empatizzare con il suo personaggio, come è giusto che sia. Allo spettatore arriva in pieno la smania patologica di Katia di sfuggire al "controllo" dei genitori. Il carceriere che Katia identifica nella sua famiglia non è nient'altro che la proiezione esterna della sua Anima tenuta in ostaggio dal carceriere Ego. Ce ne sono pochi in giro di film che riescono a cogliere tutto questo. Un grazie quindi alla scelta coraggiosa dei produttori e del regista di rappresentare in modo originale e profondo il dramma sociale, o meglio umano, che tutt'ora viviamo e che di certo non si è fermato a Novi Ligure ed è giusto che se ne parli. Katia e Andrea sono lo specchio di qualcosa che esiste ed è reale oggi come non mai, anche quando non si arriva ai gesti estremi, ma che quotidianamente uccide l'amore, il rispetto, l'empatia. A chi questo film lo accusa in modo superficiale di essere banale rispondo che il male è la manifestazione più lampante della banalità.
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