NON C’È PIÙ PROFONDA SOLITUDINE DI QUELLA DI UN SAMURAI, SE NON QUELLA DI UNA TIGRE NELLA GIUNGLA... FORSE...
Scrivere di questo film è un’autentica follia, un atto di superbia, di pura tracotanza. L’unica attività concessa da “Le Samouraï” a chiunque abbia un briciolo d’intelligenza è la visione. La visione di una pellicola che, pur rispettando le regole cogenti del noir, travalica ogni indicazione di genere per affermare una vera e propria filosofia del cinema.
Tradotto in italiano con un titolo irripetibile, “Le Samouraï” è il decimo film di Jean-Pierre Melville; l’anno prima, con lo strepitoso “Tutte le ore feriscono... l’ultima uccide” (“Lè deuxième souffle”) ha ottenuto il riconoscimento definitivo da parte di critica e pubblico. Adesso può finalmente portare alle estreme conseguenze il suo approccio stilistico. La secchezza narrativa di “Tutte le ore feriscono...” si trasforma in disadorna essenzialità, l’asciuttezza visiva in raggelata astrazione, il codice morale del milieu in regola monastica.
Frank Costello (Jef nell’originale) è un asceta del crimine. Non commette omicidi o esegue delitti: segue un rituale, officia una cerimonia. La sua solitudine è prova di un’assoluta indipendenza, il rigoroso rispetto delle regole il segno paradossale della sua libertà, lo scontro con la morte il teatro della verità. Nel suo sfidare l’ineluttabile Frank Costello afferma l’autonomia morale dell’uomo, un’autonomia che trascende ogni determinazione contingente e accidentale. Voto: 10
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