La furia di un uomo

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Un film di Guy Ritchie. Con Jason Statham, Jeffrey Donovan, Josh Hartnett, Scott Eastwood.
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Titolo originale Wrath of Man. Azione, - Gran Bretagna, USA 2021. MYMONETRO La furia di un uomo * * * - - valutazione media: 3,05 su -1 recensioni di critica, pubblico e dizionari.
   
   
   

La tensione funziona bene Valutazione 4 stelle su cinque

di Felicity


Feedback: 64072 | altri commenti e recensioni di Felicity
lunedì 21 febbraio 2022

Wrath of Man mescola il genere caper con le storie di vendetta e di malavita tanto care al regista; in effetti, sommando anche la divisione in capitoli, il racconto non sequenziale e la presenza di Jason Statham, sulle prime sembrerebbe la solita storia.
A fare una differenza grande come una casa è il taglio: in questo giro sulla giostra non sono saliti criminali chiacchieroni o ganzetti dalla battuta pronta; in effetti, ora che ci penso, non c’è nemmeno la giostra, sostituita da una Los Angeles lividissima che pare uscita da Heat - La sfida. Le analogie col capolavoro di Michael Mann non si fermano alla fotografia, ma tirano in ballo anche furgoni portavalori, doppi giochi, ma soprattutto un taglio estremamente asciutto che si specchia nella messa in scena e nella rappresentazione della violenza.
Wrath of Man costruisce subito una gran bella atmosfera servendosi del prologo e assecondando l’aura di mistero del granitico protagonista interpretato da Statham.
Assunto di fresco dall’agenzia di sicurezza Fortico e, chiaramente, dotato di un talento eccezionale, questi finirà per guadagnarsi contemporaneamente l’odio dei colleghi e l’attenzione del veterano Bullet.
Sempre sulle prime la relazione tra i due ricorda moltissimo l’analoga tra gli agenti Utah e Pappas di Point Break, fornendo una possibile chiave di lettura che, tuttavia, Ritchie si diverte ad annebbiare col secondo blocco narrativo; i misteri e la tensione restano, ma poco per volta il campo si allarga contribuendo a distribuire il racconto lungo diversi piani e schieramenti, permettendo così al regista di sfogare la sua caratteristica vocazione al montaggio.
Anche lato messa in scena niente da dire: dietro quell’aria da underdog, Wrath of Man schiera una serie di trovate affatto banali sia durante le sequenze d’azione - ma su questo c’erano pochi dubbi - sia durante i momenti apparentemente più convenzionali nell’ottica dei generi in ballo. Sono proprio queste ultime situazioni a tirare fuori il meglio dal film, laddove i movimenti di macchina e la gestione claustrofobica degli spazi contribuiscono a suggerire l’idea di una grande macchina, sia visiva che narrativa, oliata fin nei minimi dettagli.
Questo senso di unità tra le parti, di organismo, rappresenta forse l’aspetto più affascinante di Wrath of Man, oltre a suonare nettamente il più oneroso in termini di sforzi. Di contro, a tratti rappresenta quasi un limite, soprattutto quando la meccanica prende il sopravvento su atmosfera e personaggi fino a sfiorare l’esercizio di stile.
È un concetto un po’ difficile da esprimere senza tirare in ballo definizioni antipatiche o aleatorie; senza, insomma, dare l’idea di voler cercare il pelo nell’uovo, eppure la struttura del film a tratti mi è parsa un po’ troppo pulita. E non dico tanto nell’ottica del realismo - chissenefrega del realismo - quanto semmai in termini di potenza narrativa, visto che a pagare le conseguenze di questo “eccesso di equilibrio” sono soprattutto i personaggi o, meglio, la loro capacità di afferrare lo spettatore per lo stomaco.
Jason Statham, metti, funziona molto bene se c’è da fomentare il mistero o esprimere potenza; decisamente meno quando si entra nel merito della sete di vendetta, persino nell’ottica della macchina di morte che è chiamato a interpretare.
Questo, a mio modo di vedere, non dipende dal registro dell’attore né dalla scrittura del personaggio, quanto semmai da un racconto eccessivamente concentrato sui propri ingranaggi al punto da deconcentrare il cast. Ed è un peccato, soprattutto a fronte di un film complessivamente ben fatto.
Da un lato Wrath of Man è probabilmente uno dei lavori migliori di Ritchie, nonché la dimostrazione che il cineasta inglese può maneggiare registri più asciutti senza sacrificare il proprio stile; di contro, il film tradisce un eccesso di consapevolezza che ne mette a nudo la dimensione più meccanica, e a farne le spese sono soprattutto i personaggi. 

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