Harriet

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stile non adeguato al tema. Incapacità o scelta? Valutazione 2 stelle su cinque

di carloalberto


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mercoledì 22 dicembre 2021

 Per narrare le vere gesta eroiche di Harriet Tubman sarebbe stato necessario un tono da film epico, per descrivere il contesto dei campi di cotone in cui si costringevano al lavoro forzato uomini, donne e bambini schiavizzati, all’opposto, il crudo realismo del cinema verità. Kasi Lemmons, invece, non imbocca né l’una né l’altra strada, bensì sceglie lo stile del melodramma, tipico delle telenovele latino americane.
L’orrore dello schiavismo, reso più efficacemente in 12 anni schiavo da McQueen, è come attutito, edulcorato, impaginato dalla Lemmons in carta patinata da rivista per vecchie signore, alla maniera di Antebellum, e rimane sullo sfondo,come se fosse un dettaglio paesaggistico che è possibile ignorare o a cui rinviare indirettamente con le immagini delle schiene che denudandosi mostrano i segni delle frustate. La Lemmons dimentica che la sua storia è incentrata su un personaggio che non sarebbe mai esistito se non fossero esistiti i campi di sfruttamento delle fattorie bianche. Dov’è il sangue? Dove sono le torture, le uccisioni, gli stupri, lo strazio dei corpi e delle anime subito in duecento anni da quella povera gente?
E’ vero che la condizione degli afroamericani fino alla loro liberazione, a fine guerra di secessione,  suscita una tale rabbia ed una tale sete di rivolta che può essere placata soltanto con l’immaginario eroe, spietato carnefice di bianchi, di Django Unchained di Tarantino, ma almeno ci si sarebbe aspettati, nella trattazione di un tema così drammatico e scottante, per le conseguenti questioni razziali ancora vive nell’odierna America, una rappresentazione realistica del sistematico, vergognoso sfruttamento degli uomini di colore messo in piedi dai puritani calvinisti inglesi negli Stati del Sud fino al 1865.
Il film, dopo un avvio suggestivo, con la protagonista, interpretata da un’ottima Cynthia Erivo, che intona canzoni gospel per comunicare messaggi in codice agli altri schiavi, decade velocemente nell’aneddotica storica, riducendosi ad una serie di quadretti apologetici, in cui sono raffigurate, come nelle raccolte agiografiche della vita dei santi, le imprese dell’eroina e così gli attacchi epilettici di cui soffriva Harriet Tubman per un trauma cerebrale sono travisati in rapimenti mistici con visioni divinatorie.
La Lemmons, con Harriet, dimostra, ancora una volta, l’incapacità di Hollywood e degli americani di affrontare il passato mostruoso, indecente ed orripilante della propria nazione, con quel senso del tragico assoluto, che può nascere soltanto da una rappresentazione veridica e quasi documentaristica dell’orrore dolente di milioni di persone tratte in schiavitù ed allevate come bestie da lavoro dal 1600 al 1800. Rimane il dubbio che non sia una semplice incapacità, ma il frutto di una scelta opportunistica, per non alimentare oltremodo le tensioni sociali a sfondo razziale, che a tutt’oggi sono presenti in America e potrebbero esplodere in ogni momento con effetti devastanti.
 

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