Siamo nel Quebec, in un futuro prossimo. Sin dalle prime scene, capiamo che è stato approvata dallo stato una discutibile legge, tal S-14, che consente ai parenti di minori difficili, in caso di emergenza, di effettuare un ricovero coatto presso un istituto psichiatrico.
Diane e il figlio Steve, due volti per una storia concitata dalle tinte drammatiche.
Due estranei, diversi, genuini, veri. Lei single vedova, spirito anticonformista, acconciata come la vecchia imbellettata pirandelliana, tragressiva, maschera di una bellezza che non riconosce svanire. Lui malato, affetto da “calo d’attenzione”, iperattivo, legato quasi da un amore narciso nei confronti della madre cui è stato affidato dopo la morte del padre.
Steve, ecco il suo nome, è un quindicenne violento la cui arma di rivalsa sembra essere proprio questa sensazione di sopraffazione con la quale cerca di scuotere, distruggere ogni cosa che pare bloccare il suo “amore” verso la madre nei confronti di chiunque. Lo vediamo in un istituto dove a seguito dell’ennesima lite e dell’atto violento, ha dato fuoco all'attrezzatura della sala mensa, causando gravi bruciature al viso di un compagno.
La madre non ha scelta, deve riprenderselo anche se questo potrebbe provocarle non pochi problemi alla propria incolumità considerando lo scarso equilibrio lavorativo della donna.
Tra crisi nei supermercati, comportamenti infantili, tragressione e tanta voglia di andare avanti, nella vita di Diane e Steve si insinua Kyle, la nuova vicina balbuziente e remissiva, ex insegnante che ha chiesto un anno sabbatico a seguito di un profondo trauma che l’ha segnata e il cui ingresso nella vita del “duo” segnerà in modo assai importante la vita di Steve e non solo.
Sarà quello con la giovane professoressa l’inizio prima di una convivenza forzata poi tutto sommato sempre più nitida, fluida, complementare al rapporto conflittuale tra madre e figlio. Una donna che con la sua timida voce provocherà necessariamente una crasi emotiva nel giovane disadattato. Giochi di relazioni, ecco quelli che sono riassunti in “Mommy” e che vedranno una sorta di “raddoppio della figura materna” con Kyle che a sua volta proietterà su Steve le sue dinamiche di desiderio materno e i suoi lutti oltre che la sua ritrovata capacità nell’insegnamento.
In questo “triangolo” borderline, in questo gioco di specchi dove i rapporti confusi, difficili, violenti, si tramutano in una potentissima metafora della speranza e della capacità di lottare di una famiglia già segnata, Xavier Dolan il regista, giovane, dal talento mostruoso, con un compiacimento simile a Tarantino nel pulp, gioca con i sentimenti del pubblico ribaltandoli come calzini svuotati, annegandoli in un mare di lacrime con abusati rallenty prima e con scene intinte di ridicolo e grottesco dopo.
L’innovazione e l’istrionismo nella bellezza anche di un formato anomalo nella produzione cinematografica che fa uso di un 4:3 ridotto rende “Mommy” un prodotto innovativo nel suo genere. Costringe lo spettatore a vedere non più di un personaggio per volta, lo inserisce all’interno della claustrofobica angoscia del ragazzo e della madre, lo libera apparentemente da questa situazione solo “in condizioni serene” con scene classicamente “americane” ma dosate di una fotografia calda e un istrionismo non indifferente specchiato bene dal giovane Steve.
E’ un rapporto confittuale carico di una forza impulsiva destinata a mostrarsi con diversi climax (studiati) come la danza quasi sessuale tra madre e figlio (truccato da donna), l’atto di chiusura delle labbra fortemente erotico del figlio nei confronti della madre, la lunga corsa con il carrello senza suono scelta appositamente per esacerbare il desiderio di libertà del giovane. Per non dimenticare poi scene di vita quotidiana apparentemente normali ai nostri occhi ma foriere alla schizofrenica vita del duo.
Nella dicotomia bene/male in cui coloro che mettono apparentemente a rischio l’amore della madre alimentano la gelosia di Steve (come l’avvocato che avrebbe dovuto difendere il giovane dalle pesanti accuse di incendio) , si insinua il forte impatto emozionale delle sensazioni umane pietistiche, volutamente rallentate a simboleggiare quasi l’urlo muto dell’illusorietà della felicità.
Picchia duro il film di Dolan ma senza colpi bassi. Mai prevedibile, genuino a tratti nelle reazioni quasi vere (con l’apice della scena del karaoke sapientemente costruita con un “Vivo per lei” alla Bocelli), discretamente doppiato, “Mommy” rappresenta una vicenda apparentemente lontana per i poli costitutivi: remissiva per Kyle, esuberante per Diane, ambigua per Steve ma carica di speranza come sottolineato in una frase finale da Diane.
Quella speranza che pochi sanno inventare e che lo stesso cineasta riassume con questa frase: “"Siamo in un mondo senza speranza, ma pieno di persone che sperano". Come Diane, come Steve più di tutti.
Pollice alto.
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