Summer lights

Uno studio televisivo, prove audio e video e il regista dà il via.Entra la signora Takeda, le sistemano il microfono, siede di fronte al regista che le farà domande, poche, e lei, con voce pacata,viso sereno,solo in qualche momento leggermente alterato dalla commozione che le fa tremare un po’ la voce, racconta la sua esperienza.La signora Takeda è una hibakusha, termine genericamente usato per  indicare i“sopravvissuti” all’atomica di Hiroshima e Nagasaki, ma in giapponese il significato del termine è più complesso, significa “persone affette dall’esplosione”. [+]

Uno studio televisivo, prove audio e video e il regista dà il via.Entra la signora Takeda, le sistemano il microfono, siede di fronte al regista che le farà domande, poche, e lei, con voce pacata,viso sereno,solo in qualche momento leggermente alterato dalla commozione che le fa tremare un po’ la voce, racconta la sua esperienza.La signora Takeda è una hibakusha, termine genericamente usato per  indicare i“sopravvissuti” all’atomica di Hiroshima e Nagasaki, ma in giapponese il significato del termine è più complesso, significa “persone affette dall’esplosione”.

Se nei film di Resnais e Kurosawa sulla bomba l’ Oriente e l’Occidente continuavano a convivere per certi aspetti della vicenda, Natsu No Hikari è esclusivamente giapponese nel plot, nelle ambientazioni e nei personaggi, ma l’Occidente è una presenza di cui sembra non si possa fare a meno, e in questo caso è la Francia.Il protagonista, regista televisivo di documentari,vive a Parigi da vent’anni. Apprendiamo particolari della sua vita privata nella seconda parte del film, quando partono immagini rassicuranti della città rinata con i suoi viali alberati, il fiume dalle acque limpide, le strade dei negozi e dei ristoranti.Il giovane sta per lasciare di nuovo il Giappone, era andato via per studiare cinema,voleva fare film ma, racconta con un po’ di delusione,ha trovato lavoro solo in televisione per documentari come questo,voluti dal mondo come stanchi rituali della memoria.

Il racconto della signora Takeda l’ha però turbato, inevitabilmente, anche se ora bisogna vivere e la luce è quella del sole di una bella,calda estate giapponese.Appare a questo punto la misteriosa fanciulla col kimono. Seduta vicino a lui sulla panchina del lungofiume, come materializzata, sorride, chiacchiera, fa domande. Non è invadente, ha una grazia tutta sua, trasmette calore e simpatia e trascina il giovane regista in giro per fast food e poi in stazione. Lo fa salire sul treno per andare al mare, lei non l’ha mai visto e lo guarda sorridendo spuntare dietro le ciminiere che invadono la costa.Il pomeriggio sta passando, la ragazza è semplice e trasparente come acqua, ma avvertiamo un mistero intorno a lei.L’incontro con il bambino e il nonno che pescano, la cena insieme, i due futon allestiti dal vecchio per loro e poi … dissolvenza.Non si raccontano i finali, specie se troppo attesi e poi invece sorprendenti.La sorpresa del taglio a metà del film,subito dopo il racconto della signora Takeda, è superata ben presto e diventa chiaro il suo perché.Le immagini agghiaccianti evocate dalla donna, un racconto di Hiroshima mai sentito nel suo realismo più crudo, restano:“Una luce bianca, intensa, improvvisa, poi un rumore, fortissimo…”E’ l’incipit del racconto.Le parole sono diventate necessarie, non c’è ricorso alle immagini dei luoghi, ai memoriali.Periot restituisce al linguaggio verbale il suo statuto di comunicazione primaria, e lo fa usando il cinema che del linguaggio aveva insegnato a fare a meno a favore dell’immagine. Il passato, un orrore che solo la semplice immediatezza del racconto della signora Takeda rende sopportabile, si fonde con un presente apparentemente meno problematico, nella realtà resta l’impressione di vivere in una specie di tregua che può finire da un momento all’altro e senza preavviso, come in quel lontano giorno d’estate. Ma tornare bambini, giocare con l’acqua, i pesci, un pallone si può, e guardare tutto con gli occhi di un nonno o di una ragazza con un vestito antiquato.