E' vero che nel cinema si ritrovano tutti i pregi o i difetti del Paese in cui quel cinema si fa, ma se, soprattutto una volta, questo riscontro avveniva sotto un punto di vista critico, adesso più di una volta succede il contrario: ci si fa forza di tutti quei difetti, li si esaltano, li si romanzano e li portano sullo schermo. Poi si avvolge tutto in una specie di landa desolata e decontestualizzata, in cui i personaggi si muovono senza sapere perché, buttati là dal nulla, come se non fossero mai nati e non ci fosse bisogno di indagare troppo sul loro passato personale. Così è tutto più evanescente, è più "artistico", e ci si risparmia un bel po' di impegno. Tutto succede perché succede, e chissà perché. E ci si risparmia anche di scrivere dei dialoghi verosimili, con la scusa della sospensione. Anzi, ci si risparmia di scriverli quasi del tutto! Allora sarà un film soprattutto "visivo"? Va bene, vediamo il piano visivo: ci si diverte a far sguazzare i protagonisti nel fango con occhio compiaciuto, e poi si fa la morale sull'inquinamento del paesaggio. Rapporto amore/odio con la terra, qualcuno dirà. Chiamiamola contraddizione, invece. E' proprio il caso del Paese delle Spose Infelici, che parte con la situazione di alcuni ragazzi e si ritrova con incertezza di fronte a un bivio tra due storie da narrare e da far incastrare. Una, quella del futuro calcistico di uno dei ragazzi. L'altra, quella della sposa infelice, vista come una figura religiosa e perciò (apparentemente) eterea. Ma il semprelodato calcio, alla fine, diventa lo sfogo di tutte le mancanze, dei desideri non realizzati, compreso il non poter mai avere la sposa infelice. A un certo punto, quando un'intera scena è dedicata ad una delle partite ed è enfatizzata il più possibile, si capisce l'intento del film: un momento piccolo, come quello, per qualcuno può rappresentare il mondo. Ed è vero. Il problema, però, è che una serie di momenti piccoli non può rappresentare un intero film, che infatti arriva con fatica a quegli ottanta minuti, quasi consapevole del fatto che in fondo quello che si voleva dire si è detto già nella prima mezzora, e che si poteva esplicitare benissimo in un cortometraggio. Non si può tirare su un racconto per più di ottanta minuti con la scusa dei "momenti di sospensione", perché la linea che li separa dai momenti di vuoto nella sceneggiatura è stretta, e una bella confezione, il gusto per le inquadrature e per una fotografia curata (ma troppo contrastata) non possono sopperire alla carenza che sta in quello che si vuole raccontare.
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