E’ un thriller anonimo e senza spessore di uno sconosciuto regista americano, Rich Cowan, basato su tre stereotipi del genere, visti e stravisti decine di volte, il serial killer che compie omicidi rituali comunicando con la polizia attraverso messaggi ispirati a versetti biblici, la sfida all’ultimo sangue lanciata dal maniaco criminale all’investigatore, il poliziotto protagonista accusato ingiustamente di essere l’autore dei delitti perché le vittime sono tutte sue ex donne, fidanzate o amanti di una notte. Ray Liotta, l’indimenticato protagonista di quel capolavoro di Martin Scorsese del 1990 che è Quei bravi ragazzi, purtroppo, per l’ennesima volta coinvolto in un b-movie, eufemisticamente si può dire che manchi di espressività, a meno che questa non si riduca a sbarrare gli occhi, per significare, di volta in volta, sentimenti o stati d’animo differenti, rabbia, stupore, tenerezza e così via.
Dal punto di vista dei contenuti impliciti, la pellicola potrebbe definirsi cerchiobottista. Da un lato, mette alla berlina il fanatismo religioso, che esaspera in modo pazzoide alcuni temi cari alla morale cattolica, dall’altro sembra sposare senza alcuna remora la vecchia polemica antiabortista, con immagini inequivoche di feti morti chiusi in barattoli di vetro che suscitano raccapriccio e sdegno, che fa presa soprattutto sul pubblico d’oltreoceano, in larga misura, appartenente a quell’America puritana e conservatrice che ancora oggi elegge presidenti negli stati uniti.
Il finale, sorprendente per l’assoluta inverosimiglianza della trovata, non riscatta il film, abbastanza noioso e prevedibile per tutta la sua durata, e l’immancabile lieto fine completa l’opera, classificandola tra le pellicole commerciali di puro intrattenimento, peraltro non del tutto riuscito, che rattrista vedere, per il declino inesorabile di quello che fu un grande attore hollywoodiano che non meritava produzioni mediocri di questo tipo.
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