Il titolo italiano (Amore a Mumbai) è fuorviante, oltre che bruttino: fa immaginare un tipico prodotto sfornato da Bollywood, la grande industria cinematografica indiana, il cui nome è una crasi tra Bombay (divenuta Mumbai nel 1995) e Hollywood. Si pensa dunque a un film romantico, ma speziato, tipo masala. In realtà siamo ben lontani dagli stereotipi, anche se un po’ di “masala”, intesa come mescolanza di generi diversi, c’è. All’inizio il film, firmato da Payal Kapadia e premiato a Cannes, ci immerge nella metropoli indiana, dall’altissima densità abitativa, dominata dalle piogge monsoniche e da una perenne oscurità (che domina oltre la metà del film). Non è un approccio fatto di istantanee statiche, ma di immagini dinamiche: quelle in carrellata laterale prese da un treno in corsa. Alla pioggia perenne, che ricorda Blade Runner, si aggiungono i rumori tipici di una grande città, come lo sferragliare di treni e metro, cui si intrecciano tuoni e scrosci di pioggia. La notte è bella: accende le luci e maschera pietosamente gli alveari dove, a fatica, si stringono, per lavorare, 22 milioni di persone. Tra queste, vengono messe a fuoco tre donne. Le prime due, che condividono un piccolo appartamento, sono infermiere ospedaliere. Praha, la più grande, è rassegnata a vivere senza quel marito che, assegnatole dai genitori, è emigrato in Germania subito dopo il matrimonio, facendo perdere le sue tracce. La più giovane, Anu, più ribelle, di religione indù, difende la sua storia d’amore, osteggiata dalle famiglie, con Shiz, un ragazzo musulmano. Infine c’è Parvaty, la più anziana, diventata bersaglio di speculatori edilizi, che lascia la spugna: abbandona la città con le sue false promesse per ritornare al paese. Ma prima di partire si toglie lo sfizio di prendere a sassate il cartello che dice: “The privileged life is for privileged people”. Le due infermiere decidono di accompagnare Parvaty al suo villaggio, sul mare. E qui incontriamo per la prima volta la luce del sole, i passi sulla sabbia, il rumore delle onde, in contrapposizione alle tenebre e al fragore metallico della metropoli. E qui ciascuna delle due vive una storia che si colloca a metà via tra il sogno e la realtà, lasciando trapelare sviluppi futuri, o solo illusioni, quelle della povera gente: bisogna credere nelle illusioni, altrimenti si impazzisce. E forse qui si comprende il senso del titolo originale: all we imagine as light (tutto ciò che immaginiamo come luce). Delle luci, quelle naturali delle stelle e quelle artificiali di un chiringuito sulla spiaggia illuminano la bellissima, quasi felliniana, scena finale. Il film è piuttosto lento, anche a causa di alcune digressioni (la gatta incinta, il medico sradicato e innamorato, anche se questo profilo ha più senso). Però si caratterizza per l’originalità, per la leggerezza con cui affronta temi come quello delle barriere religiose, per la scelta di attrici che sembrano prese dalla strada, con la loro credibile fisicità, per la delicatezza dell’unica scena d’amore, che inquadra, in un fotogramma, i brividi di piacere sulla pelle di Shiz. E che li trasmette al pubblico…
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