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The Wolf Hour ricorda vagamente Copycat del 1995 con Sigourney Weaver, interprete in quel film, come Naomi Watts in questo, di un personaggio divenuto agorafobico dopo aver subito un trauma. La differenza tra i due film è notevole. Alistair Banks Griffin, indeciso se realizzare una storia drammatica o un thriller psicologico, rimane a metà strada e non convince in nessuno dei due generi. Il suo rimane un ibrido non riuscito e, nonostante la bravura della Watts, la pellicola risulta deludente. Pur essendoci gli elementi di un buon thriller e l’atmosfera propizia e le giuste premesse per creare suspense,Griffin riesce a sprecare tutto, causa l’affastellarsi confusionario di temi diversi ed eterogenei, dal dramma familiare della protagonista, tormentata dal ricordo del padre e dal rimorso per averne involontariamente forse causato la morte, al suo impegno ambientalista di scrittrice di successo ora ridotta a vivere chiusa nel suo appartamento come una barbona alcolista, fino all’apoteosi di uno scenario apocalittico di sconvolgimenti sociali e di rivolte. Qualsiasi cosa abbia voluto dire Griffin si è perso nel marasma generale icasticamente riprodotto nei libri accatastati in mezzo alla stanza dove la sua eroina cerca disperatamente l’ispirazione per il suo prossimo libro denuncia, ispirazione che non è mancata, purtroppo, all’autore del soggetto di questo film che non è un thriller come ci si aspettava e come era lecito prefigurarsi visione durante bensì un drammatico sociologico esistenziale sotto mentite spoglie.
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