jonnylogan
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giovedì 13 agosto 2020
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il re è qua
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Scott è un ventiquattrenne appassionato di tatuaggi che abita a Staten Island assieme a sua madre Margie, vedova ormai da diciassette anni, e a sua sorella Claire, prossima alla partenza per il college. Quando Margie inizierà a frequentare un uomo che come il padre svolge la professione di vigile del fuoco, la vita di Scott subirà un brusco contraccolpo.
L’immaturità e gli atteggiamenti con i quali il ventiquattrenne Scott Carlin affronta gli impegni della vita sono i medesimi che colpirono il giovane comico Pete Davidson a partire dai suoi otto anni, ovvero quando il padre, vigile del fuoco in servizio alla caserma di Staten Island, scomparve nel crollo delle twin towers.
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Scott è un ventiquattrenne appassionato di tatuaggi che abita a Staten Island assieme a sua madre Margie, vedova ormai da diciassette anni, e a sua sorella Claire, prossima alla partenza per il college. Quando Margie inizierà a frequentare un uomo che come il padre svolge la professione di vigile del fuoco, la vita di Scott subirà un brusco contraccolpo.
L’immaturità e gli atteggiamenti con i quali il ventiquattrenne Scott Carlin affronta gli impegni della vita sono i medesimi che colpirono il giovane comico Pete Davidson a partire dai suoi otto anni, ovvero quando il padre, vigile del fuoco in servizio alla caserma di Staten Island, scomparve nel crollo delle twin towers. Prendendo il là da questa vicenda il cinquantatreenne Judd Apatow, regista trasversale ed esistenzialista, sue le pellicole 40 anni vergine e Un disastro di ragazza, confeziona una nuova catarsi narrativa all’ombra della Grande Mela. Una catarsi figlia del tempo che passa senza che le sbandate della vita di un giovane uomo, incarnate sotto forma di un nuovo uomo nella vita della madre e di una sorella che lo sta lasciando per frequentare il college, possano scuoterlo fino a farlo crescere.
Pete Davidson, deus ex machina di una pellicola dedicata al padre Scott, offre trasporto personale e battute per un personaggio cucito sulla sua esperienza e al quale Marisa Tomei aggiunge una figura materna comprensiva e protettiva dalla quale il giovane non vorrebbe staccarsi troppo facilmente, il tutto sullo sfondo del borough meno celebrato della Mela. Il risultato finale porta a interrogarsi se non fosse possibile fare di più e di meglio rispetto a un trascorso che avrebbe meritato ben altra narrazione con la certezza che troppi sono i punti rimasti in sospeso all’interno di un film finto giovanilista.
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felicity
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martedì 23 novembre 2021
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sincero e introspettivo come raramente si vede
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Il re di Staten Island è un one man show, una stand-up comedy.
Ma in questa rappresentazione allo specchio che Pete Davidson – interprete principale, co-sceneggiatore e cuore pulsante del film, basato in maniera neanche troppo libera sugli avvenimenti della sua vita – costruisce c’è una sincerità e una qualità introspettiva difficilmente reperibile nelle spesso ciniche rappresentazioni teatrali e televisive a cui siamo abituati.
Con un tono che rifugge ogni piagnisteo, Davidson cesella un personaggio e il mondo che gli gira attorno (perché si può essere il centro tolemaico di una costellazione anche essendo inadatto e apparentemente privo di pregi) con un affetto che abbraccia la disillusione ma rifiuta il cinismo.
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Il re di Staten Island è un one man show, una stand-up comedy.
Ma in questa rappresentazione allo specchio che Pete Davidson – interprete principale, co-sceneggiatore e cuore pulsante del film, basato in maniera neanche troppo libera sugli avvenimenti della sua vita – costruisce c’è una sincerità e una qualità introspettiva difficilmente reperibile nelle spesso ciniche rappresentazioni teatrali e televisive a cui siamo abituati.
Con un tono che rifugge ogni piagnisteo, Davidson cesella un personaggio e il mondo che gli gira attorno (perché si può essere il centro tolemaico di una costellazione anche essendo inadatto e apparentemente privo di pregi) con un affetto che abbraccia la disillusione ma rifiuta il cinismo.
Scott è un giovane uomo incapace di costruirsi ma allo stesso tempo di arrendersi all’evidenza.
Sa combattere, anche in maniera goffa e per gli obiettivi sbagliati.
E se la prima parte del film sembra una risaputa anamnesi di un dropout – che rivendica i sentimenti senza saperli usare, che si estranea da un mondo che non sa conoscere – la costruzione del racconto di Apatow (con le abituali e necessarie lunghezze) crea empatia e ribalta inaspettatamente i ruoli.
Scott, emblema di giovane uomo che rifiuta crescita e responsabilità più per pigrizia che per rivolta, morbidamente si accuccia al dispiegarsi della vita, scopre capacità affettive che gli sembravano precluse, impara ad accettare la madre proprio nel momento in cui si sente rifiutato, trova nell’innocenza di bambini altrui lo sguardo carico di purezza capace di immobilizzarlo, scuoterlo e infine liberarlo, si lascia adottare da una comunità che riteneva di odiare.
Scott è un uomo che rifiuta di crescere ma che trova la salvezza (o almeno la potenziale strada per una minore infelicità) in un modo sghembo di tornare bambino, in una versione deformata di famiglia da cui si fa accudire e che lo fa sentire per una volta accettato senza compatimento, ma con compassione.
Il re di Staten Island forse porta in sé qualche sentimentalismo di troppo (cauterizzato con forza dall’apparente e contagioso fatalismo del suo protagonista) e forse è fin troppo indulgente verso la forza e la gioia dell’imparare a cambiare. Ma lo sguardo finale verso l’alto di Scott, il suo vedere nei grattacieli newyorchesi non una minaccia ma una polvere di sogno, ripaga di qualche imprecisione e compiacimento e regala una delle più tenere, implacabili, maschili storie di crescita del cinema americano di questi ultimi anni. Perché non è mai troppo tardi, non per crescere, ma per imparare a conoscersi e per avere curiosità nei confronti di un proprio futuro ancora, per fortuna, non scritto a qualsiasi età.
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