Una pellicola mediale, mediata, ipermediata. Un’opera che mette in scena l’interdizione. Un’opera che racconta il genocidio cambogiano degli anni 70, in una prospettiva tanto intimistica, quanto storiografica. Scritto e diretto da Rithy Panh, regista cambogiano che trasla sullo schermo il dramma che ha squarciato la sua memoria, tentando di recuperare, tra le fratture, l’immagine mancante; ancora una volta l'essenza del cinema si presta all'assenza della storia.
Un documentario che con la retorica narrativa della fiction si articola su un tessuto intermediale, che interseca con maestria diversi piani della messinscena: al realismo delle immagini di repertorio, la pellicola sovrappone la riproduzione dei personaggi, rimodellati e riformati come le coscienze dei cambogiani, deturpate dall’omologante logica comunista di Pol Pot e dei Kmer rossi.
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Una pellicola mediale, mediata, ipermediata. Un’opera che mette in scena l’interdizione. Un’opera che racconta il genocidio cambogiano degli anni 70, in una prospettiva tanto intimistica, quanto storiografica. Scritto e diretto da Rithy Panh, regista cambogiano che trasla sullo schermo il dramma che ha squarciato la sua memoria, tentando di recuperare, tra le fratture, l’immagine mancante; ancora una volta l'essenza del cinema si presta all'assenza della storia.
Un documentario che con la retorica narrativa della fiction si articola su un tessuto intermediale, che interseca con maestria diversi piani della messinscena: al realismo delle immagini di repertorio, la pellicola sovrappone la riproduzione dei personaggi, rimodellati e riformati come le coscienze dei cambogiani, deturpate dall’omologante logica comunista di Pol Pot e dei Kmer rossi. Con le sue figure agite, eppure narrative, il regista reifica la spersonalizzazione di un popolo privato della propria identità.
Ibrida nella forma e nello stile, la pellicola sembra quasi eludere ogni pretesa di completezza rappresentativa: la diaspora lascia aperti dei vortici nella memoria, narrazioni senza trama, essenze interdette. The missing picture cerca di mettere in scena un’immagine irrappresentabile, un’immagine che si da nella sua assenza, un dramma soggettivo che è, secondo una logica ologrammatica, il dramma di un popolo intero. Un’autohistoria fittizia, finzionale, funzionale. Un dialogo al rimpallo tra ciò che è stato e ciò che è inscenato: ed è quando la voce narrante comincia a tacere davanti alla deflagrazione documentata che il rispetto vien fuori. Una finzione rispettosa e una realtà rispettata nella sua irrispettosa violazione di libertà umane.
La retorica soggettiva della sceneggiatura con le sue pause, i suoi silenzi, le sue interdizioni abbandona il film ad un ritmo lento, estenuante, penetrante, cercando di tracciare un’immagine indelebile nella memoria collettiva. È come se recuperare, ricostruire, rappresentare le immagini del dramma fosse una forma di riscatto per il ricordo. Un ricordo che continua a giacere sulla pienezza del vuoto lasciato dall’immagine mancante.
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