Mission: Impossible – Dead Reckoning se la prende con l’Intelligenza Artificiale.
Lo fa in modo ovviamente iper-generico: è l’AI più potente e pericolosa del mondo, si chiama “l’Entità”, ti conosce nell’intimo e pertanto è capace di prevedere ogni tua mossa, ma soprattutto è di difficile gestione, pericolosa e potenzialmente ingovernabile. È Skynet, sostanzialmente.
Là dove James Bond si sforza di rinnovarsi, Ethan Hunt è sempre l’eroe classico che più standard non si può: è dedito alla causa, ha un forte senso morale che mette davanti a tutto e tutti, sbaglia solo per “troppi sentimenti”, è sempre inevitabilmente fichissimo. Ha un piccolo team che gli è indispensabile, ma che sta sempre rigorosamente sullo sfondo. È circondato di belle donne altrettanto bidimensionali ma, come concessione ai tempi moderni, non ne seduce nemmeno una.
Mission: Impossible dopo un po’ inizia a tirare il giochino un po’ troppo per le lunghe e la testardaggine con cui rimane piantato sul suo schematismo inizia pian pianino a scricchiolare.
L’apice è il dialogo nel club a Venezia: una sequenza di altisonanti banalità generiche che sembrano scritte per un trailer più che per un film, punteggiate da una raffica di reaction shots in primissimo piano che nemmeno in una soap opera. Intrigato! Determinato! Confuso! Minaccioso! Basito!
Come se non bastasse però, anche il lato action dopo un po’ inizia a cedere: le sequenze sono sempre travolgenti e incredibili, ma a infastidire maggiormente sono le troppe volte in cui un momento difficile si risolve off screen, senza spiegazioni, in mezzo a uno stacco di montaggio. La prima volta la si abbuona sempre, ma alla terza/quarta inizia a crescere l’idea che si vadano a incastrare troppo spesso in situazioni da cui non sanno come uscire. E di nuovo: non fosse per Tom, che sacrificandosi in prima persona permette inquadrature che altrimenti non si potrebbero fare e crea il 50% della tensione da solo, non ci sarebbe da stare troppo allegri.
È troppo lungo, Mission: Impossible – Dead Reckoning. Non che sia troppo lungo di per sé, o che sia noioso: anzi.
Il problema è che, come ogni buon film di spionaggio esige, ha fisiologicamente una struttura troppo complessa per essere imbrigliata da un approccio così rigido.
E un approccio così rigido funziona solo quando i confini sono stretti e non hai tempo di respirare. E invece, queste storie di spionaggio e controspionaggio, viaggi da un capo del mondo all’altro, giochi e doppi giochi, suspense e colpi di scena, di tempo ne hanno eccome.
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