La meccanica delle ombre

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Ombre e penombre Valutazione 4 stelle su cinque

di loland10


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martedì 11 aprile 2017

La meccanica delle ombre” (La mecanique de l’ombre, 2016) è il primo lungometraggio del regista-attore Thomas Kruithof.
            Tasti ingranditi e sfuocati di una macchina per scrivere, un fruscio di sottofondo, i gesti delle dita che alzano il tono musicale, la ripresa che avvolge lo schermo e che ruota su se stessa dall’alto. Un uomo e la sua scrivania batte ogni lettera con precisione metodica, svolge il suo con parsimonia e ansia. Ecco il capo si presenta a lui ‘per una ‘relazione’ entro domani mattina. Duval smuove tutti i fascicoli dagli armadi, una corsa, un continuo pit-stop tra carte, scrivania e telefono. Difficile fronteggiare l’evenienza.
            Un inizio un po’ polaskiano, dove lavoro, dovere e sottomissione sono parvenza e onore in un uomo mite ma angosciato, mesto ma ansioso, silente ma introverso. Una solitudine di un ex alcolista che va in un centro di ‘rieducazione’ dove conosce Sara.
            Duval si ritrova senza lavoro ma ecco una società fantasma gestita da Clement gli propone un contratto per trascrivere intercettazioni telefoniche tutto come dattilografo. In un appartamento isolato con una scrivania, macchina da scrivere e dei nastri di registrazione. Dalle 9 alle 18 per millecinquecento euro la settimana senza farsi vedere, senza aprire a nessuno e senza uscire per mangiare. Le tende che si aprono e si chiudono, il rumore della macchina, l’odore della carta e il silenzio di contorno. Una vita monotona e assurda dove l’unica regola è non parlare con nessuno: unico riferimento è Clement. In poche parole fare il servo nascondendo il tutto.
 
            Un film anche claustrofobico dove il silenzio in alto fa velo allo scontro ‘programmatico’ tra Duval e Clement, un uomo schivo e il potere nascosto, la penombra e l’ombra. Tutto in uno stile ‘parsimonioso’ e ‘asciutto’ quasi da contraltare ad un certo cinema d’inchiesta ma nascosto (degli anni settanta per intenderci), privo di clamori per avere dentro un senso d’angoscia e di persecuzione.
            Francois Cluzet riesce a reggere il personaggio comune fino alla fine con una certa sicurezza e un velo di tristezza come di sbandamento: vedasi gli incontri con Sara (una convincente Alba Rohrwacher) prima tra gli ex alcolisti, poi per strada, dopo vicino ad un ascensore  e infine al portone di casa. Tutto sembra vero e falso, ogni fiducia riposta, come ogni disdetta o persuasione. Duval è tra incubi normali per un affetto represso e incubi violenti per tetre figure e disegni terroristici o segreti di Stato mai conosciuti. E quando la sua voce al telefono (mentre parla con l’agente Labarthe) fa eco nelle sue orecchie ogni segno di violenza psicologica è l’antefatto (o l’incipit) per un mistero che non vorremmo (mai) sapere. Ecco che il dubbio di conoscere oltre il dovuto e la visibilità (anche se in molto oscuro e ristretto) delle stanze di Clement (e della sua ‘organizzazione’ per noi ‘nascosta’) ci mette alla pari di una storia chiusa e opprimente. Non è detto che sapendo il ‘dentro’ siamo rassicurati ma nello stesso tempo avendo troppi elementi siamo sul dubbio di ogni cosa. Il trasporto ‘incappucciato’ di Duval verso un luogo in ‘ombra’ perenne fa il verso a ‘Il maratoneta’ (1976 di John Schlesinger, dove lo studente ‘Babe’ (Dustin Hoffman) viene ‘torturato’ dal dott. Szell, un Laurence Olivier che vale il film per generazioni) e ai suoi mondi oscuri.
            Il film di Thomas Kruithof (e Hitchcock da par suo ‘sorride’) rende l’idea di un ‘vestito classico’ rapportato a un genere che conosciamo con  un’ inquietudine  e una cupezza funerea  espressa da volti mesti, rigidi e (ag)gravati per un linguaggio amorfo e asettico. Una prima parte coinvolgente e nascosta, una parte finale ghignosa e con veli tolti. La scena ultima riesce a segnare il film con uno sguardo incrociato e un (non) incontro che il montaggio oscura con i titoli di coda. E il sottofondo musicale non è da meno.
“Sei una persona inconsistente meno vuoto di quello che …”. Ecco un film di vuoti e di una consistenza impalpabile. Tutto dentro un appartamento svuotato con una tenda pro-forma: è il set di una finzione (ir)reale.
Voto: 8-/10.

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