Si è insistito molto, a proposito di questo film, sul ruolo della fantasia come forma di compensazione (a volte tanto intensa da rasentare l’allucinazione). In effetti, nella prima parte del film il protagonista Jean Marc possiede un alter ego virtuale, un vero avadar, che se la gode tra splendide donne vogliose di sveltine, al contrario dell’ego reale, che pratica solo esercizi solitari.
Il montaggio, che alterna, a volte in modo troppa insistito e prevedibile, le due vite parallele di Jean Marc, sembra suggerire per un attimo l’idea che dalle frustrazioni della vita quotidiana possa nascere un’immaginazione salvifica: il germe dell’arte o della letteratura. Ma poi l’attenzione si sposta, forse non troppo coerentemente, verso il mondo che circonda il protagonista: un Quebec che è identico a tutti gli scorci di questo mondo globalizzato. Un non-luogo devastato da tutta una serie di calamità: traffico, telefonini, incomunicabilità, ansia di carriera, solitudine, crisi famigliari, anziani abbandonati e dementi, malattie, paure, fanatismi e intolleranze – non a caso- medievali. Per finire, il regista include un riferimento alla specifica realtà canadese, con la paranoia delle aziende governative di servizi che perseguono il politically correct e la “qualità”, arredano gli uffici secondo i principi del feng shui , organizzano corsi sulla comunicazione con l’utenza, senza che ne discenda alcuna efficacia, senza fornire alcun aiuto reale ai bisognosi, alla faccia del mito canadese di Michael Moore (“le vostre vite sono troppo complicate”, dirà Jean Marc alla triste coda del pubblico in attesa di non risposte).
Insomma finisce per prevalere l’ansia per il contesto, caratterizzato da disordine esponenziale, da un caos entropico che si trova solo al tramonto delle grandi civiltà. Non a caso questo film completa una trilogia che pone l’accento su termini come decadenza, barbarie, oscurità (L'age des tenebres, è il titolo originale). Per questo, nonostante i frequenti momenti di umorismo (assai meno rilassati di quelli delle Invasioni barbariche), il film lascia l’amaro in bocca e non incoraggia per nulla l’ottimismo sul futuro. A ragion veduta, per altro. La conclusione non è però drammatica né del tutto negativa: lascia intravedere la possibilità di un nuovo rinascimento, a patto di ripartire con uno stile di vita molto ridimensionato, come suggeriscono i fautori della decrescita sostenibile: a contatto con la natura, con la riscoperta dei lavori antichi, come quelli dell’orto, fatti assieme agli altri, senza fretta né competizione.
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kaipi
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lunedì 17 dicembre 2007
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brava
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megliosenza
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domenica 30 dicembre 2007
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avrei dovuto leggere il tuo commento, prima
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di scrivere il mio: avrei capito meglio il film :)E' vero, è il contesto che schiaccia l'individuo, è il disordine che vince, ma non su tutti, solo sul protagonista. E non sembra un "veggente", un illuminato, ma solo e debole.La più bella scena è quella dello sbucciamento della mela: se ne sente il rumore, se ne vede il sugo, se ne misura tutta la lenta durata. Finalmente la testa vuota, finalmente la giusta concetrazione e presenza a se stessi anche nella semplicità del gesto fatto.Chissà quanti beneficerebbero di una "cura del niente" come quella del protagonista...
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alessandro caroli
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martedì 1 gennaio 2008
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un parallelo...
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Un parallelo con un altro protagonista filmico (ma anche reale, in quel caso) di "vite parallele", è ineliminabile: parlo di Nash del "Beautiful Mind". Che ne pensi? Considera intanto l'americanità (USA o Canada cambia poco) di entrambi.
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