Rosencrantz e Guildenstern sono morti

"Rosencrantz e Guildenstern sono morti" rappresenta un'operazione per certi versi unica nella storia stessa del cinema. A una prima lettura è una riscrittura colta dell'Amleto dalla soggettiva di due personaggi minori condannati a morte indifferente, in realtà la migliore interpretazione mai fornita dell'estetica dell'osceno nel suo senso più rispettoso dell'etimologia (o-skenè, fuori scena) dai tempi di Kafka. Il tempo, per i due (non) protagonisti, corre solo sulla scena maggiore: la moneta che cade sempre sulla testa all'inizio sembra voler rappresentare la sospensione del prima; l'impiccagione farsa sulla nave invece che in terra inglese e attuata dal capocomico vestito da re il decadente squallore di una morte che sulla scena del bardo è solo annunciata. La scena della morte, in effetti, rimanda e parecchio all'esecuzione di Josef K. nel Processo di Welles, condividendo con essa una denuncia della dittatura della scrittura a monte sui destini dei caratteri impiegati. Ora, costruire un'opera del genere richiede una conoscenza maniacale non solo dell'originale, ma anche dei meccanismi più sofisticati della scrittura di scena e, di conseguenza, una sceneggiatura rodata da venti anni di battaglie, una brillante capacità nel combinare i propri dialoghi con quelli dell'originale, senza svilirli in alcun modo. Così accade che, nelle riflessioni di R. e G., si possa giungere fino alle porte del senso dell'esistenza stesso, e in un'opera di matrice teatrale come questa si finisca con l'indagare la magia del cinema. Menzione d'onore per gli attori, tutti bravissimi, e per la fotografia. Un film da vedere e rivedere.