Il prigioniero della miniera

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Senso di morte ne " Il prigioniero della miniera " Valutazione 4 stelle su cinque

di DANIELA MACHERELLI


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domenica 8 gennaio 2017

Nel bel film del 1954 diretto da Henry Hathaway e ambientato in un Messico rurale desolato e affascinante della fine dell’Ottocento, un’atmosfera di morte è presente lungo tutto lo svolgimento della vicenda ed è veicolato sia da alcune connotazioni del paesaggio, sia dai personaggi che, ognuno a modo suo, trasmettono la sensazione di andare incontro ad un destino ineluttabile al quale non si possono sottrarre. Già dalle prime inquadrature alberi morti, una città distrutta e abbandonata, un’altra sepolta da un’eruzione che ha salvato solo il campanile della chiesa, presenza discreta ma nel contempo inquietante, calano il film in un climax di vicinanza con la morte che caratterizza anche i personaggi. La giovane e bella Lia (Susan Hayward) vuole soccorrere Fuller, il marito ingegnere che è rimasto ferito e bloccato in una miniera da un crollo. A questo scopo ingaggia un piccolo gruppo di uomini di passaggio in quella zona e diretti in California per cercare l’oro, e parte con loro verso la miniera. Lia e gli altri riusciranno nel loro intento, anche se un tragico destino, già anticipato dai dialoghi, dalle psicologie, dalla natura ostile e dalla presenza costante, anche se non sempre visibile, degli Apache come latori di morte, incombe su quasi tutti loro.Fuller, il marito di Lia, si presenta da subito come figura in un certo senso “maledetta”, caratterizzato da una cupa disperazione che, dopo essere stato salvato, gli fa dire: A che serve vivere?, esternando così il non senso esistenziale che lo pervade; coerentemente nel finale del film va consapevolmente incontro alla morte per mano degli Apache, in una sorta di mascherato suicidio. Fiske (Richard Widmark) dice a Hooker (Gary Cooper) mentre si stanno strenuamente difendendo dagli indiani: Quanto valgono le nostre vite?, un’inquietante domanda che non trova risposta. Successivamente, al tramonto del sole, poco prima di morire, lo stesso Fiske afferma amaramente: “Ogni volta che il sole se ne va si porta via qualcuno”, constatazione tragica dell’impossibilità di uscire da un meccanismo esistenziale che procede inarrestabile e immodificabile, designando ogni giorno le sue vittime, impossibilitate a ribellarsi alla loro condizione di finitudine.

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