The End

Alla scoperta del RenoTutti a bordo verso la fine

Una famiglia ideale ma ferocemente chiusa su se stessa. Un mondo annichilito da qualche oscura apocalisse ambientale. Una casa -bunker -museo, sorta di Arca yankee, luogo della memoria e tempio del privilegio (fuori sono tutti morti, ma alla sopravvivenza contribuiscono capolavori dell'arte, acquari densi di specie esotiche, una piscina per ricreare il corpo oltre che lo spirito). Il tutto esaltato da numeri cantati e ballati su partitura di Joshua Schmidt. Perché come sappiamo da Audiard ("Emilia Perez") e Carax ("Annette"), il musical si addice alla catastrofe. Dove non arrivano dialoghi e sottotesto, si possono spingere versi e melologhi. Più di un'inquadratura, conta ciò che un personaggio rivela (e magari scopre) di sé, cantando sentimenti e conflitti. Già autore del memorabile e quasi Oscar "The Act of Killing", tre ore di psicodramma sui massacri nell'Indonesia anni Sessanta con i carnefici impegnati a riviere le proprie gesta, una bomba che costrinse il governo Usa a desecretare 30mila file, il texano Joshua Oppenheimer passa alla finzione chiudendo nel bunker sette (ottimi) interpreti e secoli di sensi di colpa. Il tema vero di "The End" non è infatti come si arriva alla catastrofe ma cosa succede dopo. Ovvero ogni giorno, perché apocalisse o no siamo tutti sopravvissuti, tutti prima o poi affrontiamo un passato scomodo. Così, in quella famiglia allargata, il figlio ventenne (George McKay), che non ha mai visto il cielo, scrive la biografia del padre (Michael Shannon), già manager proprio in Indonesia, abbellendo e ripulendo senza sospettarlo le parti più scomode; la madre (Tilda Swinton) veglia sulla bellezza della casa e l'armonia dei ricordi, che abbracciano anche i suoi luminosi anni al Bolshoi (ma sarà vero?); mentre l'amica di famiglia segnata dal lutto ha anche lei i suoi bravi scheletri nell'armadio. E medico e maggiordomo accudiscono quelli che anche là sotto restano padroni (abissi e cunicoli da fantasy, ma autentici, vengono dalle miniere di salgemma di Petralia Soprana, Sicilia). Sarà un'ospite imprevista (Moses Ingram) a rimettere in moto le lancette spingendo tutti ad affrontare un passato, personale e collettivo, assai diverso da come se lo raccontano (fra tante scene memorabili, spicca quel diorama dedicato alla storia Usa che la nuova ospite, afroamericana, legge in tutt'altra chiave). L'allegoria è chiara insomma. A tratti anche troppo. Più del clima ci uccidono menzogna e autoinganno, certo. Peccato che la durata monstre e il w voler dire sempre tutto smussino un poco s impatto e capacità di seduzione di un film ambizioso e sofisticato come pochi.
Da L'Espresso, 4 luglio 2025


di Fabio Ferzetti, 4 luglio 2025