ennio
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martedì 10 aprile 2018
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dramma personale e redenzione collettiva
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I pochi film neozelandesi di genere neorealista che riescono a farsi notare anche agli antipodi valgono la visione. Dopo "once were warriors", anche "the dark horse" vede al centro un protagonista Maori, dalla personalità ancora più sofferta e complicata di quelli delle periferie metropolitane dipinti dal film di Tamahori (in cui già figurava Cliff Curtis).
Nello specifico dovrebbe essere un film biografico, ma essendo molto romanzato, molto filmico e recitativamente intenso, appare più una fiction. Notevole l'interpretazione di Curtis, e anche il trucco per abbruttirlo, non è facile rendere al grande pubblico la personalità di un disturbato bipolare.
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I pochi film neozelandesi di genere neorealista che riescono a farsi notare anche agli antipodi valgono la visione. Dopo "once were warriors", anche "the dark horse" vede al centro un protagonista Maori, dalla personalità ancora più sofferta e complicata di quelli delle periferie metropolitane dipinti dal film di Tamahori (in cui già figurava Cliff Curtis).
Nello specifico dovrebbe essere un film biografico, ma essendo molto romanzato, molto filmico e recitativamente intenso, appare più una fiction. Notevole l'interpretazione di Curtis, e anche il trucco per abbruttirlo, non è facile rendere al grande pubblico la personalità di un disturbato bipolare.
Unico neo, le scene scacchistiche, che come in quasi tutti i film risultano esageratamente rapide dando l'impressione che il gioco degli scacchi sia una specie di Arkanoid da tavolo. Ma gli scacchisti non se la prenderanno più di tanto, ci sono abituati.
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mauro@lanari
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lunedì 18 settembre 2017
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"dropout" & "homeless": al di là del biopic
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Ispirato a Genesis Potini (1963-2011), un biopic dal respiro assai più vasto. Li chiamano dropout, devianti, emarginati, marginali, invisibili, ano(r)mali rispett'alla norma della maggioranza comunitaria. Sono segnati da un breakdown psichico e organico, un collass'o tracollo al contempo mental'e corporeo, non c'è gerarchia nel duplice supplizio.
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Ispirato a Genesis Potini (1963-2011), un biopic dal respiro assai più vasto. Li chiamano dropout, devianti, emarginati, marginali, invisibili, ano(r)mali rispett'alla norma della maggioranza comunitaria. Sono segnati da un breakdown psichico e organico, un collass'o tracollo al contempo mental'e corporeo, non c'è gerarchia nel duplice supplizio. "The Dark Horse" diventa indelebile quand'il suo protagonista è ridotto a un neozelandes'errante, girovago senza meta, e farneticante, incagliato in un delirio mantrico ad alta voce mentre rimugina le parole del trauma più recente. Sintomi che debordano video e audio del film tanto da rendere didascalici certi parossismi (l'allucinazione al bagno pubblico del suo viso grondante sangue, aforismi mascherati da linee di dialogo: "Ti hanno mai maltrattato? Quante volte prima che smettessi di piangere?"). Genesis si risollev'aggrappandosi alla sua poderosa stazza Maori com'un Lomu dei manicomi e ricostruendo un ordine logico con la razionalità scacchistica, con la struttura narrativa del mito di Maui, coi ricordi d'infanzia vissut'assieme al fratello maggiore. Gl'altri personaggi aggiungono pennellate, particolari, dettagli a questo one man show, eccellente prov'attoriale di Cliff Curtis, in sovrappeso di quasi 27 chili, diretto dall'ottimo James Napier Robertson. La seconda serie di scene memorabili corrisponde alla sua condizione di senzatetto: non trova né casa né accoglienza, s'accovaccia press'un monumento marmoreo, inerme contro l'intemperie della vita climatiche e umane, assediato dalla violenta luminosità del panorama naturale da un lato e urbano dall'altro. Ha da sempre una partit'a scacchi da vincere col fratello: doveva essere in senso letterale, si trasform'in metafora. Difficile dire s'alla fine qualcuno n'esca davvero vittorioso.
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