Un figlio di nome Erasmus

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Un on the road sulle orme di Salvatores Valutazione 3 stelle su cinque

di Eugenio


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sabato 25 aprile 2020

Tempi di Covid 19, tempi di locali chiusi, di spasmodiche attese verso una fase due illusoria.
Tempi di clausura forzata per i più fortunati che possono contare ancora su un lavoro e che cantano dai balconi inni di speranza verso una metaforica liberazione da un nemico invisibile.
Tempi in cui l’industria dell’intrattenimento, teatri o cinema in primis, cambia pelle, approdando “in streaming” a pagamento. E’ il caso dell’ultimo film “Un figlio di nome Erasmus”, la cui uscita prevista per il 19 marzo, giorno della festa del papà, ha visto la nascita il 12 aprile sulle cosiddette piattaforme on demand.
Il vento accarezza la sabbia della costa atlantica portoghese in questa commedia on the road di Alberto Ferrari che miscelando atmosfere retrò da trentennale spirito nostalgico di Salvatores, vedasi Marrakesh Express (lì il Marocco qui il Portogallo), imbastisce un canovaccio con personaggi alla scoperta di loro stessi e di un figlio che hanno avuto vent’anni prima amando la stessa donna (talis Amalia ex pornostar) durante un soggiorno Erasmus a Lisbona.
Un figlio quindi per quattro padri. Ancora una volta quattro uomini completamente diversi: Jacopo (Paolo Kessisoglu), un prete con la sorella lesbica (scenetta quella in cui lo scopre a distanza da pura goliardia anni ’80) di cui chiaramente non accetta l’orientamento sessuale e che, proprio vent’anni prima era il fidanzato “ufficiale” di Amanda, Enrico (Daniele Liotti anche voci fuori campo), architetto qualunquista che per far carriera nel partito politico del suocero, è costretto a sposare, mica tanto convinto, l’acida quanto solitamente isterica figlia dell’azzimato borghese; Pietro (Memphis, nei suoi ruoli praticamente di sempre ovvero un romanaccio bauscia diremmo qua procuratore artistico di trapper arroganti, che organizza feste di matrimonio con reunion improvvisate di una banda che copia le canzoni dei Pooh e  Ascanio, forse il personaggio meglio caratterizzato (interpretato da Luca Bizzarri), guida alpina per manager incravattati, legato a un look eccentrico, a teorie da carpe diem oraziano, che nascondono, dietro l’apparente leggerezza, un doloroso segreto personale.
Insomma, quattro amici diversi, dalle abitudini, professioni, caratteristiche completamente differenti che si ritrovano, improvvisamente a partire da Roma attraversando il Portogallo alla ricerca di un figlio frutto di un errore di gioventù, in attesa del test del DNA che ne certifichi la precisa paternità.
Seguendo le direttive dell’avvocato sulla presunta locazione di questo figlio e aiutati da una ragazza del posto (Pinto) che si offre incondizionatamente (?) di supportarli per difficoltà linguistiche, il quartetto parte con un pittoresco furgone che trasporta sardine da Lisbona verso Figuera da Foz, recuperando lacerti di un Portogallo, dalle affascinanti scogliere a picco sul mare e tradizionali paesini in cui la mano turistica pare ancora lontana.
Tanto Marrakech Express dunque, con personaggi usciti da un film di Verdone (penso a Memphis o all’architetto) e purtroppo ahimè tante contaminazioni da film americani trash, che rappresentano la vera caduta di stile di una commedia che pur non eccellendo, garantisce comunque uno svolgimento lineare e acuto, anche se evidentemente già visto (il finale è chiaro dalla prima mezz’ora).
La puntatina nostalgica al vecchio campus universitario dove i quattro hanno trascorso il loro periodo in Erasmus, trova “sfogo” nella serata in discoteca e nella successiva sbornia del risveglio la cui immagine di un hangover “leggasi “Una notte da Leoni” celebre trilogia di una decina d’anni fa, rappresenterà la classica svolta verso un binario morto di una commedia che non riesce a trovare una precisa dimensione.
Se dall’intento lodevole di raccontare il viaggio per raccontar se stessi, in momenti in cui il passato e futuro sono luoghi immaginari e l’unica cosa che conta è il presente, Un figlio di nome Erasmus, non riesce a trovare il giusto connubio tra dramma (la vicenda di Ascanio che ricorda molto quella di Aldo in un recente film “Odio l’estate”), l’introspezione psicologica e lo sketch caciarone divertito con la battuta pronta.
Ferrari naviga a vista su un mare in fase di bonaccia, in cui presto perde la bussola della meta. Il significato ultimo della commedia (quello del figlio), è pretesto per un’accozzaglia, spesso disordinata di filosofie spicciole alla John Belushi: Vivi veloce, muori giovane e lascia dietro di te un cadavere gradevole, gare di Kitesurf  per scommesse, un’improbabile mostra d’arte di una ex professoressa universitaria (Carol Alt) di Enrico (di cui questo finisce per innamorarsi chiaramente, alla Aldo Vitali come saggiamente suggerito da Ascanio in una battuta) e l’insegnamento dei poeti cubani della rivoluzione con i dogmi del piantare l’albero, preservare la specie e scrivere un libro.
 
Intento lodevole, sceneggiatura incerta ma comunque efficace nella sua leggerezza.
 
Perché malgrado la critica, Un figlio di nome Erasmus riesce a intrattenere per due ore, e in tempi di Coronavirus si sa, anche evadere per poco dall’isolamento casalingo, non è poco. Anche solo per ammirare splendidi anfiteatri naturali della costa portoghese ahimè da un freddo schermo televisivo.
 

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