Waiting for the Barbarians è una storia universale, il racconto metaforico di un rapporto millenario.
Da un lato noi, l’occidente, forte della nostra presunzione fragile di essere i detentori della Civiltà, della vera Religione, della giusta Morale. Dall’altro c’è l’Alieno, il Barbaro, quello che, nel migliore dei casi, è un eccentrico personaggio da sfruttare, nel peggiore, un pericolo da annientare.
Il film di Ciro Guerra, pur ambientato in un tempo improprio che unisce elementi medioevali a sapori ottocenteschi, vuole ribadire la propria atemporalità, in un’esposizione “contraddittoria” che è, allo stesso tempo, saggio storico e storia d’attualità.
Waiting for the Barbarians potrebbe essere ambientato il giorno prima della Caduta dell’impero romano, nel pieno della conquista del West o a Lampedusa dei nostri giorni. Il peso del suo messaggio rimarrebbe identico.
Guerra si pone al centro dei deliri paranoici e dell’ambizione famelica di una società, la nostra, che dietro ad alibi ottusi perde inesorabile la propria umanità e accentua il lato metaforico del romanzo per comporre un quieto ma incisivo pamphlet sul senso del razzismo contemporaneo e i rigurgiti colonialisti della nostra società.
È soprattutto interessante e originale il lavoro di descrizione del protagonista: un baluardo di ragionevolezza contro la scomposta violenza del potere, contro il bisogno disperato di ogni governo – qui ritratto nel suo braccio armato – di costruirsi un nemico ad hoc, costruendo attorno a esso una propaganda, contro la voglia di costruire sempre nuovi muri e nuovi confini.
Eppure, il magistrato dello splendido Mark Rylance fa parte dello stesso sistema di dominio razziale, seppure ne mostra il lato “buono”: tutta l’emozionante parte centrale, che descrive il rapporto con la barbara sfregiata dagli interrogatori dell’esercito, sancisce la distanza tra i mondi che collidono, mette alla berlina il modo in cui funziona il senso di colpa, basato sul paternalismo peloso anziché sulla comprensione.
Più ieratico rispetto al testo scritto, il film può lasciare perplessi proprio per le sue scelte di ritmo, per il suo andamento cadenzato e anche per qualche tocco più goffo con cui si evidenza una difficoltà di Guerra a interagire con una produzione più grande, con i modi e le strutture del cinema d’autore tradizionale.
Però, nell’uso di un set metafisico, nella capacità di mettere in scena i gesti del suo protagonista e di dar loro un senso, nel modo di mettere in scena gli spazi e i luoghi, Waiting for the Barbarians resta un film affascinante e a suo modo compiuto, più intimo e personale di ciò che appare al primo sguardo.
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