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fulvio wetzl
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sabato 18 maggio 2024
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anatomia di una sonata
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E' un tema ricorrente in questa ricca stagione cinematografica, l'inconciliabilità che esplode all'interno di coppie di artisti, partendo sempre da un livello tossico di competizione. Pensiamo al capolavoro di Justine Triet, Anatomia di una caduta, dove una scrittrice di successo, troppo immedesimata nel suo percorso, finisce con non rendersi conto delle sofferenze del marito, scrittore anch'esso, impantanato in una crisi creativa forse irrimediabile. Succede in Confidenza di Daniele Luchetti dove un docente saggista, propugnatore di un metodo scolastico innovativo, non riesce a sopportare che una sua allieva che lui ha concupito ancora minorenne, diventi più importante di lui, matematica ad Harward.
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E' un tema ricorrente in questa ricca stagione cinematografica, l'inconciliabilità che esplode all'interno di coppie di artisti, partendo sempre da un livello tossico di competizione. Pensiamo al capolavoro di Justine Triet, Anatomia di una caduta, dove una scrittrice di successo, troppo immedesimata nel suo percorso, finisce con non rendersi conto delle sofferenze del marito, scrittore anch'esso, impantanato in una crisi creativa forse irrimediabile. Succede in Confidenza di Daniele Luchetti dove un docente saggista, propugnatore di un metodo scolastico innovativo, non riesce a sopportare che una sua allieva che lui ha concupito ancora minorenne, diventi più importante di lui, matematica ad Harward. E ancora a parti invertite Priscilla, moglie di Elvis Presley, eternamente succube della vitalità e del talento del marito, cui Sofia Coppola dedica un intero film, paradossalmente senza una sua canzone, per cercare di compensare l'evidente complesso di inferiorità della donna, senza riuscirci. E qui ci avviciniamo a Funérailles di Antonio Bido, dove è di nuovo la donna a dirigere la musica stridente di una coppia, due musicisti, stesso strumento, il piano, come la Cate Blanchett di Tarr. Un film tutto concentrato nel saliscendi di scale di un appartamento, set unico come nel Polanski di Repulsion, e nell'alternarsi di scale maggiori e minori su tastiere ossessivamente percosse, più che percorse, fino all'autolesionismo. La materia organica non manca in questo film, fuoriesce dai corpi, dagli interstizi tra i tasti di avorio e quelli di ebano, invade scalini e fessure. Lei ossessionata dal successo con lo stesso vorticoso impeto minaccioso del pezzo di Liszt che da nome al film, lui ossessionato da una, inconsueta e fuorviante per un uomo, voglia di paternità, forse perché lui spera di uscire con la nascita di un terzo incomodo da questo universo concentrazionario, con lui vittima irrimediabilmente perdente, che è la coppia e la casa. Un film virtuosistico con una fotografia iperrealista, in cui anche il buio ha la sua luce sinistra, con tagli di montaggio come coltellate, una partitura musicale quasi concreta, rimandi continui ai topoi visuali del cinema del brivido, fatto di carrozzine stridule, uomini melliflui, feti annegati, che implode come un tubo catodico e ci ricorda che sin dalla nostra nascita saremo "partoriti con dolore", lacrime e sangue, e che il percorso, la vita, fino al "rientro", sarà periglioso e insensato, e nient'affatto lineare. E non riusciremo forse a venirne a capo, neanche con un film.
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manuela giordano
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domenica 19 maggio 2024
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il grande ritorno in "noir" di antonio bido
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Un uomo siede al pianoforte dinanzi una piccola platea di gente. Il concerto si apre sulle note di "Funérailles" di Franz Liszt, brano dall’incedere cupo e solenne. L’esecuzione è sempre più concitata, l’uomo è concentrato ma qualcosa lo distrae: una donna bionda seduta in prima fila e più nessun altro in sala. Sconvolto da quella strana visione, che più volte scompare e riappare, il pianista interrompe bruscamente e abbandona il palco tra i bisbigli del pubblico, chiedendo al suo manager di poter tornare a casa. Cosa ha scatenato quella reazione così turbata? Ma soprattutto, chi era quella donna? Questo il prologo di "Funérailles", l’opera ultima di Antonio Bido che torna al cinema “noir” 45 anni dopo "Solamente nero" (1978), elegante thriller “lagunare” uscito al crepuscolo del fortunato periodo del giallo all’italiana.
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Un uomo siede al pianoforte dinanzi una piccola platea di gente. Il concerto si apre sulle note di "Funérailles" di Franz Liszt, brano dall’incedere cupo e solenne. L’esecuzione è sempre più concitata, l’uomo è concentrato ma qualcosa lo distrae: una donna bionda seduta in prima fila e più nessun altro in sala. Sconvolto da quella strana visione, che più volte scompare e riappare, il pianista interrompe bruscamente e abbandona il palco tra i bisbigli del pubblico, chiedendo al suo manager di poter tornare a casa. Cosa ha scatenato quella reazione così turbata? Ma soprattutto, chi era quella donna? Questo il prologo di "Funérailles", l’opera ultima di Antonio Bido che torna al cinema “noir” 45 anni dopo "Solamente nero" (1978), elegante thriller “lagunare” uscito al crepuscolo del fortunato periodo del giallo all’italiana. Dopo anni in cui i fan del regista padovano chiedevano a gran voce il suo ritorno, Antonio Bido forgia la sua ultima fatica con l’estro e la passione di un autore che ha ancora voglia di raccontare al suo affezionato pubblico la propria idea di cinema, e lo fa attraverso un’opera sontuosa, sfaccettata. Includendo in sé varie declinazioni e significati, e non accontentandosi di mostrare semplicisticamente una vicenda tutt’altro che lineare e compiuta, "Funérailles" adotta le fattezze del noir, d’ispirazione vagamente lynchiana, ma si arricchisce di altre sfumature che spaziano dal dramma sentimentale (focalizzando sulla crisi della coppia, ottimamente impersonata da Alessandra Chieli e Fausto Morciano) al thriller psicologico che tanto caro fu al Polański della "trilogia dell’appartamento". Suggestioni sottili ma rielaborate autorevolmente per un soggetto che Bido ha sviluppato in una sceneggiatura a quattro mani con la moglie Marisa Andalò, materializzandosi in un’opera dalla narrazione complessa: sequenze oniriche, inserti surreali, flashback e andirivieni temporali volti a esibire gli aspetti salienti di una storia che si presta a molteplici interpretazioni, pur ancorata alla contingenza di una vicenda malsana e distruttiva. Un amore tossico – come purtroppo tanti se ne vedono - quello tra i protagonisti Miriam e Andrea (entrambi pianisti affermati), avvelenato da incomprensioni, invidie e da una sciocca competizione destinata purtroppo ad esacerbarsi e che origina nel fermo rigetto di lei della maternità. La negazione di un figlio viene considerata da Miriam – che ha anche una storia di abusi familiari alle spalle - come l’unica via verso la felicità, possibile solo attraverso l’amore per il pianoforte e una carriera assicurata per i palchi di tutto il mondo. Un’ossessione che finisce per manifestarsi attraverso la paranoia e uno scivolamento progressivo verso la repulsione patologica e lo straniamento. Menzione speciale, inoltre, per la partecipazione straordinaria di Stefania Casini, nei panni dell’invadente e autoritaria madre della protagonista, scelta nuovamente da Bido dopo il conturbante ruolo di Sandra in "Solamente nero", e la cui presenza farà sicuramente la felicità dei fan della prima ora. Dal punto di vista tecnico, "Funérailles" è un film dalla pregevole fattura, girato con mano sicura ed elegantemente curato nei dettagli, ricco di affascinanti suggestioni visive, come ad esempio la citazione del dipinto "Ophelia" di Millais. Grande risalto viene inoltre dato al fattore “acustico”, affidato alle musiche originali di Francesco Tresca che qui non hanno soltanto il compito di accompagnare le immagini, quanto di dar loro il giusto risalto caricandole di pathos. Gli ottimi effetti speciali sono invece assicurati dalle mani sapienti di Sergio Stivaletti.
Antonio Bido è rimasto nei decenni scolpito nei cuori di quanti lo hanno apprezzato per i suoi preziosi contributi al giallo-thriller italiano, con "Il gatto dagli occhi di giada" prima (1976) e dall’anzidetto "Solamente nero" poi. Due sole opere che hanno, però, avuto il pregio di consegnare il suo nome alla storia della cinematografia italiana di genere (ormai soltanto un glorioso ricordo) e che hanno alimentato la speranza di rivederlo ancora all’opera. Il momento è finalmente arrivato, potendo qui ammirare una concezione più fresca e personale del regista padovano, rinnovata e sganciata dai riverberi del passato. Signore e signori, facciamogli un applauso anche solo per questo!
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monfardini ilaria
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lunedì 20 maggio 2024
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quando il pentagramma ti spacca il cuore
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“Non si deve niente ai morti, e i morti non devono niente a noi”.
Antonio Bido è un regista veneto che ha raggiunto la notorietà nel mondo del cinema di genere italiano negli Anni Settanta, lasciandoci chicche quali i due thriller Il Gatto dagli Occhi di Giada (1977) e Solamente Nero (1978). Dopo il film d’azione Blue Tornado del 1991 Bido sembra aver abbandonato il mondo del cinema per concentrarsi soprattutto su documentari e videoclip. Nel 2019 fa uscire un bel documentario autobiografico dal titolo I miei Sogni in Pellicola, in cui ricostruisce in maniera decisamente accattivante tutta la sua carriera, infarcendolo di interviste ai colleghi ed amici di una vita.
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“Non si deve niente ai morti, e i morti non devono niente a noi”.
Antonio Bido è un regista veneto che ha raggiunto la notorietà nel mondo del cinema di genere italiano negli Anni Settanta, lasciandoci chicche quali i due thriller Il Gatto dagli Occhi di Giada (1977) e Solamente Nero (1978). Dopo il film d’azione Blue Tornado del 1991 Bido sembra aver abbandonato il mondo del cinema per concentrarsi soprattutto su documentari e videoclip. Nel 2019 fa uscire un bel documentario autobiografico dal titolo I miei Sogni in Pellicola, in cui ricostruisce in maniera decisamente accattivante tutta la sua carriera, infarcendolo di interviste ai colleghi ed amici di una vita. Ma Antonio non ha scordato il cinema, e finalmente quest’anno vedrà la luce nelle sale il suo nuovissimo film, dal titolo emblematico di Funérailles (Non ti voglio), che ho avuto la fortuna di poter vedere in anteprima. Sebbene si tratti di un’opera davvero complessa e stratificata, decisamente diversa dai film precedenti del cineasta e non facilmente ascrivibile ad un genere specifico, anche se tendente al noir, proverò a darvene la mia personalissima visione, purtroppo mutila dal fatto che non posso e non voglio assolutamente rischiare spoiler per non togliervi il piacere di andare a vederla sul grande schermo non appena sarà proiettata.
Miriam è un’affermata pianista, sposata con Andrea, anche lui pianista ma meno noto ed acclamato della moglie. Tra i due il rapporto è strano, si amano, ma mentre lui vorrebbe avere un figlio da lei, così da completare la famiglia, Miriam pensa invece solo alla sua sfolgorante carriera, non perdendo occasione di umiliare il marito facendolo sentire inferiore e arrivando persino a sospettare che lui sia invidioso del suo successo. Tra flashback del passato felice e dell’adolescenza complicata di Miriam, ed un presente triste e vuoto in cui la loro storia sembra essersi conclusa malamente, si svolge il racconto strano ed ambiguo di una coppia la cui differente visione del mondo e dell’amore porterà sul baratro della follia e della perdizione.
Bido torna al lungometraggio dopo 33 anni, e lo fa con l’intenzione, che non sarà disillusa, di lasciare il segno. Lo si capisce subito dai primi frame e dalla maestosa fotografia di Gianni Del Popolo, talmente satura di colori da risultare quasi fiabesca, avvolgendoci immediatamente col suo tocco e portandoci a capofitto dentro la vita di Andrea e Miriam. Non è difficile intuire sin dall’inizio come il film si svolga in una dimensione onirica, sospesa, in un tempo del sogno dove i protagonisti nuotano in una sorta di liquido amniotico che non ci permette mai realmente di capire quali siano i fatti che si svolgono realmente e quali facciano invece parte della loro immaginazione e, perché no, delle loro follie ed ossessioni. Tra gli alberi occhieggia una figura che ci porta quasi a pensare che Bido si sia voluto inerpicare nel territorio della ghost story, quella di una bambina che spinge una carrozzina per le bambole, ma molto presto impareremo a collocare questa visione, solo all’apparenza inquietante, nello spazio che le compete. Nulla è a caso in Funérailles, ogni dettaglio, ogni colore, ogni frase, sono stati studiati meticolosamente per essere al loro posto, e formare sempre più chiaramente il quadro d’insieme di questa ineluttabile tragedia familiare.
Il tappeto sonoro, con musiche originali di Francesco Tresca e brani di musica classica e lirica, ha fin da subito un grande impatto, e la cosa risulta ovvia dal fatto che i protagonisti sono due pianisti, ed è proprio il pianoforte lo strumento che li lega e li allontana sempre più, in un vortice macabro nel quale il dramma è in agguato. Dopo uno splendido incipit a colori, Bido inizia a portarci indietro nel tempo, con raffinatissimi flashback in un elegante bianco e nero, durante il quale ripercorriamo la storia di Miriam bambina, col suo approccio alla musica ed il rapporto burrascoso coi genitori, e quella del suo amore con Andrea, fino ad arrivare al presente, grigio e vuoto ma sottolineato dai colori della brillante fotografia. In questo mondo onirico si inseriscono personaggi quasi surreali, tra cui la madre ed il padre di Miriam, fantasmi, visioni, o persone ancora in carne ed ossa, chissà, la bambina con la carrozzina e l’impresario della coppia, forse colui che tra tutti rappresenta meglio la sfera della realtà, che interrompe, con le sue entrate in scena, il flusso del sogno in cui siamo trasportati. Stesso discorso vale per le location, tutte collocate tra Ariccia e Velletri, come il piccolo auditorium dove Andrea si esibisce all’inizio o la splendida villa isolata dove si svolge buona parte del film: tutti sembrano luoghi irreali, da sogno, pronti a sparire o comunque modificarsi al primo battito di ciglia, con un cromatismo accentuato che li rende quasi parti di un quadro.
“Ombre, ricordi e crepe”, questo, ci dice Miriam, è tutto ciò che sembra esserle rimasto della sua vita: l’introspezione è un altro dei punti forti su cui si impernia Funérailles, presentandoci pochi personaggi ma tutti molto ben caratterizzati, anche le pochissime figure di contorno. Bido e Del Popolo costruiscono poi un montaggio sincopato che più volte calca la mano sull’atmosfera da incubo, e non è un caso che in una delle scene più sofferte del film questa sia stata accompagnata dalle lugubri note del Faust di Charles Gounod, così come la scelta del titolo della pellicola sia caduta su una disperata marcia funebre di Franz Liszt, che apre e chiude l’intera vicenda. Nonostante il tema di Eros che si incrocia con Thanatos sia vecchio quanto il mondo, Bido e la moglie, la sceneggiatrice Marisa Andalò, hanno saputo sfruttarlo per realizzare un’opera sanguigna, originale e dolorosa come non mai, in cui, come spesso accade, è l’uomo, con le sue innumerevoli perversioni, a fare più paura di qualsiasi mostro generato dalla fantasia di qualche scrittore.
Durante l’intera narrazione si passa senza soluzione di continuità dal territorio del sogno a quello dell’incubo, e le paure della protagonista sembrano sovente prendere vita, incarnarsi, assumere aspetto corporeo, reale, avviluppando tutto sempre più in una confusione che non può che essere malsana, alimentata dal dramma infantile di Miriam, e da quello della solitudine, che sta vivendo adesso. Lo spettatore è portato a condividere con lei la labilità dei confini tra il reale e l’irreale, tra ciò che è e ciò che sembra, tra il sogno, l’incubo e forse il desiderio recondito. Il regista ci mostra per immagini come non ci sia nulla al mondo che faccia più paura dei meandri oscuri in cui può invischiarsi la mente umana, facendoci perdere completamente o, in casi fortunati, solo parzialmente, l’aderenza con la realtà.
Il trauma infantile, o comunque un evento drammatico avvenuto in gioventù, è alla base dei due thriller bidiani, e questo ultimo lavoro non fa eccezione. Spesso negli Anni Settanta i grandi del cinema italiano di genere si sono basati, per i loro assassini, proprio su queste tematiche, basti pensare alla maggior parte dei killer dei film di Dario Argento, che raramente coglievano dal presente l’input per le loro nefandezze. Dopo aver vissuto, quindi, un terribile trauma che le ha segnato la fanciullezza, Miriam si rintana nelle note, nel pianoforte, l’unico, a suo dire, che può capirla fino in fondo, finché l’amore per Andrea sembrerebbe “salvarla” dalla sua solitudine, ma così non è. Nonostante l’amore che prova per lui, i suoi pregressi con gli uomini la portano a seguire il desiderio che la spinge verso la sua personale idea di felicità, che però lei vede riflesso davanti a sé in una sorta di trasposizione onirica fatale del famoso quadro di John Everett Millais Ophelia. E proprio nella dolce Ofelia shakespeariana si incarna bene la vita di Miriam, il cui amore, corrotto da eventi esterni non ponderabili che affondano nel passato, sembra averla spinta definitivamente nei gorghi della follia. Funérailles suona come una sorta di monito, contro l’ambizione smodata, la totale fiducia in se stessi e nelle proprie doti e capacità, che offuscano spesso chi ci sta accanto, anche se, in questo caso, pare che tutto ciò sia usato da Miriam come una sorta di riscatto dal suo passato: tuttavia questo tipo di atteggiamento autoconclusivo non può che spingere pian piano il soggetto operante in fondo ad un baratro di solitudine e follia, fino alla perdita totale del proprio io, nel quale massimamente si confidava. Nel film c’è anche la personale condanna di Bido a temi quanto mai scottanti e sempre, ahimè, attualissimi, come l’incesto, la violenza sulle donne e l’impossibilità, ancora oggi, per una donna di decidere liberamente del suo futuro, della sua vita, della sua personale scelta di non essere madre senza essere giudicata. Il regista, infatti, si pone, a seconda dei casi, in modi diversi davanti alla sua protagonista, talvolta schierandosi palesemente dalla sua parte, quasi compatendola, talaltra invece avversando un certo suo tipo di atteggiamento.
La gravidanza, il corpo che cambia, che si trasforma, il terrore di avere la vita e la carriera completamente sconvolte dalla nascita di un bebè, insieme a un timore più personale che getta le radici nel pregresso della protagonista, è il fulcro su cui si dipana buona parte della vicenda. Talvolta Miriam sembra arida, snaturata, addirittura contro natura, quando afferma che un figlio sia una perdita di tempo, fa venire i brividi, e la violenza con cui essa proclamerà il suo diritto a non essere madre talvolta è così cruda ed esasperata da terrorizzare letteralmente lo spettatore, più di tanti mostri fittizi.
Elegante. Questo è l’aggettivo che più di tutti trovo calzare a pennello al nostro Funérailles. Elegante nella regia, nella fotografia, nei dialoghi, nelle interpretazioni, persino nelle scene violente, valorizzate dagli splendidi effetti di Sergio Stivaletti e la sua fidata squadra, che riescono a fare più male di tanto splatter gratuito, colpendo le corde più recondite di ognuno di noi. La scelta del cast è oltremodo perfetta, a mio modesto parere. Ad interpretare Miriam Grieco troviamo la talentuosa attrice umbra Alessandra Chieli, che è anche una valente musicista, quindi si è saputa benissimo calare nei panni della pianista affamata di fama con un passato difficile che cerca di negare anche a se stessa. La sua formazione teatrale è in questo caso indispensabile per la perfetta immedesimazione col personaggio, che fa suo in tutte le più piccole sfumature. Al suo fianco, nei panni di Andrea, il pugliese Fausto Morciano, anche lui con una lunga e brillante carriera teatrale alle spalle. Espressivo ed elegante come la sua partner, gioca il ruolo dell’uomo innamorato e assoggettato alla sua donna ed alla sua arte, che però non riesce a imbrigliare totalmente i suoi desideri, cosa che porterà alla disintegrazione di tutti i suoi sogni. Ricorrente, come un mantra, la sua invocazione disperata nei confronti della moglie: “Cos’altro vuoi per essere soddisfatta?” Nel ruolo caustico della madre di Miriam, invadente ed autoritaria, quasi un personaggio timburtoniano, troviamo la grandissima Stefania Casini, l’indimenticabile Sarah del capolavoro argentiano del 1977 Suspiria, che vanta collaborazioni con nomi del calibro di Aldo Lado, Bernardo Bertolucci, Antonio Margheriti, Carlo Vanzina e lo stesso Bido, da cui è diretta in Solamente Nero.
Insomma, con un occhio alle atmosfere del passato ed uno ai temi più scottanti ed attuali del nostro tempo, tra tutti il perpetuarsi violento del patriarcato, Antonio Bido ritorna brillantemente sulle scene cinematografiche, facendoci sperare che adesso non le abbandoni più per un bel po’.
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