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Balagov, giovane regista russo al suo esordio, dimostra impegno civile e coraggio, nonché una certa originalità stilistica. Il tutto gli è valso il premio della critica al festival di Cannes. La visione tuttavia non si presenta facile. Il film è di una lentezza spasmodica e forse le due ore di girato potevano essere ridotte da un montaggio più selettivo. Il tema dell’emarginazione della comunità ebrea in una remota regione della Russia a maggioranza islamica e quello della subordinazione della donna nell’ambito della sua stessa comunità sono al centro di una storia che coinvolge una famiglia intera, che, messa di fronte ad una scelta drammatica, ne scarica sulla figlia maggiore, interpretata da una giovane e promettente Dar'ja Žovner, tutte le tensioni e le conseguenze, anche economiche. Lo scenario è complesso. Sullo sfondo la dissoluzione del unione sovietica e la guerra dei separatisti Ceceni, la barbarie degli estremisti islamici, la condizione di estrema povertà e degrado delle periferie urbanizzate, la desolazione di giovani vite senza futuro che affogano nell’alcol l’angoscia e la disperazione di un vuoto esistenziale palpabile in ogni fotogramma. A parte il capofamiglia, tratteggiato come un bonaccione innamorato della figlia, gli altri personaggi maschili non suscitano nessuna simpatia. Forse sono stati scelti proprio per questo, perché alla fine si empatizzi esclusivamente con la protagonista femminile, ma ciò costituisce un ulteriore elemento che contribuisce a rendere ostica la fruibilità della pellicola, soprattutto per un pubblico abituato al cinema americano laddove si arriva all’opposto e cioè di rendere simpatici anche i personaggi più mostruosi.
Impressionante è l’improvvisa disfonia che colpisce la protagonista nel finale, della quale peraltro i genitori sembrano non accorgersi, che dona un carattere surreale ad un film fino a quel momento realistico, metaforizzando l’impossibilità delle donne di farsi valere e quindi di far sentire la propria voce nelle decisioni familiari, nella propria comunità e, per estensione, nelle scelte politiche del paese. La didascalia finale lascia un senso di amaro in bocca, il regista si congeda dal pubblico dicendo di non sapere che fine abbiano fatto i suoi personaggi, abbandonandoli sulla strada di una ennesima peregrinazione, alla ricerca di un posto dove poter costruire qualcosa di stabile ed un improbabile futura serenità.
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