Castrare il maschio e uccidere il padre come ricetta per l'emancipazione femminile.
Il film ripropone il filone della Hollywood woke: donna-eroina contro maschio-perdente, dove il grande assente è "la legge morale dentro di me" che ormai è un cimelio kantiano; certo non presente nella donna, ormai detentrice del patrimonio violenza, silentemente consegnato dal nuovo establishment culturale; certo non presente nell'uomo, declinato in personaggi infimi, o, nel migliore dei casi, appiattiti e secondari.
La scena di castrazione non somiglia per nulla a quella di Hostel II, che, rivoluzionaria, ha il significato della trasfigurazione della vittima in carnefice, quando la bilancia del potere volge a suo vantaggio. L'atmosfera intorno al gesto è il raccapriccio, l'orrore, ma anche il senso di inerente necessità: quella castrazione è l'atto più alto della Rivoluzione, l'esecuzione del Re.
Oggi, ciò che negli anni di Hostel II era rivoluzione, è diventato regno; Maxxxine arriva in un periodo relativamente tardo del matriarcato culturale e gestisce l'acquisito monopolio della violenza, esercitandola come punizione, come asserzione del potere, con un gesto che non è orrorifico, ma routinario, patinato, ironico, annoiato, come un padrone che deve impartire l'ennesima frustata per l'ennesima punizione all'ennesimo peccato, nel caso del film, l'originale e irredento della libidine primordiale aggressiva del maschio.
Il film racconta, in fin dei conti, la beatificazione pubblica di Maxine, personaggio privatamente immorale come solamente un vincitore, o una vincitrice, può essere. Siamo nel caso in cui analisi e meta-analisi confondono i loro piani e si ritrovano una nell’altra: la struttura della trama, ossia l'equazione tra successo e moralità ("la classe che è la potenza materiale dominante della società è nello stesso tempo la sua potenza spirituale dominante." di Karl Marx o il più proverbiale "ogni morale è una morale dei vincitori") si può riferire anche ai subliminali ideologici di questo film e di tanta Hollywood degli ultimi anni, con i suoi nuovi maestri che, dopo aver fieramente ucciso i propri padri, impongono senza contraddittorio la nuova ideologia dominante; un nuovo ordine che forse all'inizio ci parve rivoluzionario, salvo poi scoprire che è solo un rovesciamento di soggetto e complemento nella solita grammatica eroe-antieroe, che continua ad asserragliarsi sulla dicotomia orizzontale tra i sessi, in cui uno dei due domina, sminuisce, castra, violenta l’altro.
Maxxxime si rivela pertanto un prodotto sì estetico, ma soprattutto ideologico. La lussuria visiva ammalia lo spettatore, solamente per tirargli uno schiaffo sotto forma di moralismo punitivo, quando questi meno se l’aspetta, dal finale jumpscare non fisico ma spirituale, con quel moralismo crudo, manicheo, fascista. Il possibile partigiano-spettatore è ridotto in ricettacolo ideologico, stordito dal sensuale dell’estetizzazione, sicuramente curato dal punto di vista tecnico, ma usato nel migliore dei casi come strumento di propaganda, e come inganno nel peggiore.
E forse qui risiede la principale provocazione del film: imporre un messaggio di sessismo stereotipato ma in modo così veemente da non aprire uno spiraglio per il contraddittorio. Forse che la proattività immorale femminile imposta come unico dogma sia il controaltare vendicativo del modello di passività morale, ricamato sulla figura della donna dal vecchio e ormai sconfitto modello patriarcale?
La storia racconta di una vincitrice che ha stracciato la vecchia morale e ha deciso di riscriverla. La storia è raccontata da vincitori che hanno stracciato la vecchia morale e hanno deciso di riscriverla. Nulla di più vero. Nulla di più tautologico.
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