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"Quando non sai di che parlare parla di tutto anche se tutto è proprio tutto quello che sai".
Sapete come si dice? Nel guazzabuglio di temi e generi diversi e riferimenti assortiti è più probabile che si possa nascondere tutta la tua pochezza d’animo. Quello della “confusione d’autore” è un artificio tipico di certa retorica, cinematografica, in questo caso, che però, se ben confezionata, può sempre sortire un discreto successo. Dunque, ecco l’«umanità dannatamente irrecuperabile» secondo Lanthimos. Temo che qui di irrecuperabile ci sia soltanto Lanthimos, in realtà. Insomma, la metafora che qui confeziona per parlare di una generazione (la “terza?”) umana, forse destinata ad essere l’ultima su questo pianeta, non mi è piaciuta granché. È vero che la mia preferenza rimane per “Salvate il pianeta verde” e questo deve aver condizionato la mia visione del film del regista greco. Tuttavia, nel film di Joon-Hwan Jang si pestava con maggior forza sul pedale dell’ironia e della farsa e un accenno di comprensione verso il protagonista alienato in cerca di alieni sembrava più facile. Qui il protagonista sembra soltanto un serial killer e dei più efferati. Difficile empatizzare con un tipo simile (o forse era questa l’intenzione del regista? Una sua velata scelta di campo?)
Un emarginato che si prende la sua rivincita rifugiandosi nel delirio può essere anche una logica conseguenza delle sue immense e ripetute frustrazioni, ma qui il protagonista Teddy sembra soltanto un pazzo furioso e pure troppo scemo e in modo irreparabile anche lui (non ci sono giustificazioni possibili) che al confronto il cugino Don, poverino, si staglia a “genio ribelle”.
Comunque sia, qualche riflessione la stimola il film, tutto sommato. Personalmente ci ho visto qui la lotta tra deliri diversi. Quelli dei cosiddetti “normali” perfettamente integrati nel sistema e quelli più paranoici degli eterni esclusi da questo stesso sistema. Questi ultimi (in tutti i sensi) che vorrebbero partecipare al delirio altrui, ma non possono. Questa lotta di magnifici deliri reciproci non può che esitare in una lenta autodistruzione collettiva.
Insomma, se ti senti proprio geneticamente escluso dagli altri è più facile vedere gli altri sempre più estranei da te, e il passo verso la tendenza a vederli o immaginarli come alieni cattivi (o nemici da abbattere a tutti i costi) che vogliono distruggerti, te e l’umanità tutta, può essere davvero breve.
Ancora una volta però il regista mi appare piuttosto ingenuo. Siamo nei dintorni di una “metafisica ingenua” sul genere “Essere o non Essere” perché con tutta evidenza non può essere questo il problema.
Rimango pur sempre convinto che certi "deliri" dei cosiddetti integrati siano ancora preferibili a quelli di certi complottisti e delle loro teorie farlocche da deep web. Non fosse altro che quelli con i deliri da complottisti che si sentono esclusi dal sistema non ci provi neanche a convincerli che stanno sbagliando che tanto è inutile, come si premura a ripetere la Fuller a Teddy durante il pranzo. Qui però sembra che il regista voglia equiparare le parti in causa: il complottista paranoico e la Ceo (cinica?) dell'azienda farmaceutica. Ma come si fa a non simpatizzare per la Fuller oltretutto dopo la scorsa alle foto dei macelli perpetrati da Teddy ai danni degli “alieni inconsapevoli?”. E la politica? Dov’è la politica sembra volerci dire il regista. Perché alla fine quelli che si contrappongono nell’agone delle idee (e della realtà) non sono soltanto puri deliri, ma più modestamente forse soltanto due estremizzazioni retoriche? Quindi, artifici dialettici appartenenti più alle forme del linguaggio (cinematografico) che ad una realistica contrapposizione di contenuti? Alla fine, le posizioni più o meno deliranti di realisti pragmatici e allucinati assortiti (paranoici illusi) si annullano reciprocamente accomunate come sono dallo stesso identico esito, cioè pur sempre l’ingiustizia, la disparità sociale, la distruzione del pianeta. Da nessuna delle due parti arrivano proposte in grado di invertire il trend dell’autodistruzione. E se la pragmatica delegata dell’industria farmaceutica fosse davvero un’aliena, poi? Ma sì, tanto ormai crediamo proprio a tutto. E tutte le verità si equivalgono.
Più che alla metafisica ingenua di Lanthimos sono più propenso a credere che l’ultima generazione non sarà la nostra, ma quella in grado di vivere in un pianeta invivibile e che riesce ad adattarsi alle sperequazioni sociali sempre più profonde. A questo proposito mi piace la "metafora della trasformazione" proposta da una serie come "Westworld" un ambiente popolato da residenti, androidi programmati per soddisfare i desideri più perversi degli ospiti umani, ma soprattutto che si candidano a succedere agli umani con gli stessi vizi e le medesime virtù. Quindi non necessariamente migliori, ma soltanto più capaci di sopravvivere in un ambiente sempre più pericoloso e inadeguato ad ospitare la vita umana così come la conosciamo. Ecco, mi immagino la prossima generazione “umana” non propriamente “umana”. Ma questo è un altro film.
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