Chi ha attraversato (o è stato attraversato da) gli anni Settanta ne porta impronte indelebili. Possono essere segni visibili (nel vestire, occhieggiando all’ hippy style, negli accessori, dagli occhiali agli stivaletti, dalle collanine alle sciarpe indiane; oppure nell’acquisto, per chi può, del furgoncino Volkswagen, magari decorato a fiori). Oppure segni interiori: un certo modo di sentire, un po’ fricchettone, tendenzialmente non allineato, l’amore per la libertà, l’amore, soprattutto, per una cultura musicale che ha raggiunto vette molto alte in quegli anni, tanto da apparire inarrivabile da parte di esperienze postume. C’è da stupirsi allora se esistono delle band di sessantenni o settantenni che suonano con la stessa passione dell’adolescenza delle cover seventy di tutto rispetto, sdegnando tutto quello che è arrivato dopo? Dopo la svolta degli anni ’80, in cui tutto, musica, televisione, cinema, politica, é diventato marketing… Nel film Boys si racconta la storia di una band che non esegue cover, ma musica e testi autoprodotti, solo che il frontman non ha retto a quel passaggio epocale markettaro e si è suicidato, lasciando il posto al fratello. Così Carlo (Giovanni Storti), Joe (Marco Paolini, un po’ troppo ingessato alle tastiere), Bobo (Giorgio Tirabassi) e Giacomo (Neri Marcorè) proseguono il loro cammino, per pura passione, e con spirito di amicizia, anche se i problemi della vita e dell’invecchiamento (prostata in primis) non li risparmiano. A rompere il loro tran tran è la proposta dell’agente di un rapper (che più volgare e buzzurro nel suo falso lusso non si può): chiede i diritti di tutte le loro canzoni (composte da Mauro Pagani, per altro) per farne una cover trendy. I soldi che si prospettano sono molti, ma mancherebbe la firma della bella cantante del tempo, sparita nel nulla. Inizia così un viaggio (l’on the road non poteva mancare), alla ricerca di questa donna che non è ritornata nell’Est, da cui proveniva, ma è finita a Capracotta, nel Molise. Sempre bella, affascinante e amichevole. Non dico come va a finire. Mi sembra però che le intenzioni di Davide Ferrario, nonostante la qualità del cast, siano migliori dei risultati, che non sono tuttavia scadenti. Non so se è una questione di ritmo, di montaggio o altro. Va detto però che in quei 97’ si ride, ci si diverte, si alimenta l’avversione verso il rapping, che, di per sé, è nato povero tra gli afro, mentre viene sempre di più cavalcato da personaggi orripilanti che ti fanno dire: Manneskin for ever!
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