In concorso al Festival di Cannes, un melodramma che colpisce per la sincerità con cui Almodóvar mette in scena la sua vita. Dal 17 maggio al cinema.
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Il potere della cinefilia e della memoria. Avrebbe potuto anche intitolarsi così, Dolor y Gloria di Pedro Almodóvar, sorprendente meraviglia della tarda maturità - sorprendente non perché il regista non ci abbia già fornito prove maiuscole in passato quanto per la sensazione che si trovasse in una fase calante della sua carriera. E invece, come già accaduto in altri casi, l'opera dell'autore si impenna all'improvviso proprio per la sincerità e la spudoratezza con cui mette in scena autobiograficamente la sua vita (opportunamente riletta in chiave poetica, s'intende), con l'aiuto di un formidabile Antonio Banderas, alla prova più importante della sua intera carriera.
I riferimenti a 8 ½, per quanto seducenti, sono credibili fino a un certo punto poiché il cinema di Almodóvar, anche questa volta, ama circondarsi più che altro di cinefilia (un aspetto che notoriamente a Fellini interessava poco, più legato al linguaggio dell'inconscio e dell'onirismo, e più vicino alla cultura grafica e del disegno).
La memoria è il tema fondamentale di Dolor y Gloria. La memoria della madre, la memoria dell'amico perduto, la memoria dei film, la memoria di se stessi quando si invecchia e il meglio sembra alle spalle. La mossa vincente di Almodóvar è quella di fare del suo protagonista, ovvio alter ego, un personaggio dominato dal proprio corpo. In una delle sequenze più belle e spiazzanti, la sua voce fuori campo commenta un catalogo di disagi e disturbi fisici di cui soffre, mentre sullo schermo osserviamo disegni, anatomie, radiografie, in uno strappo visionario che non sarebbe dispiaciuto a Saul Bass - essendo del resto Alfred Hitchcock un fantasma sempre presente in tutta la filmografia almodovariana, e la musica di Bernard Herrmann ancora una volta ispirazione per la colonna sonora (fulgida) di Alberto Iglesias.
Il corpo di Salvador è sempre presente, e suscita tutti i ricordi e le nostalgie, spesso in uno stato di dormiveglia causato da medicine, droghe e crisi che lo riducono in uno stato narcotico. Da lì, a raggiera, il cineasta spagnolo fa nascere una serie di satelliti narrativi struggenti, grazie ai quali può fare i conti con l'arte, l'infanzia, la cultura latina, l'omosessualità, e molto altro ancora, pur con la capacità di gestire questi interrogativi universali attraverso il prisma della singolarità, della storia personale e dell'intimità.
In questo modo, Dolor y Gloria diventa uno dei film più importanti di Almodóvar, più belli da vedere e più commoventi, oltre che più onesti. Con l'amore e con l'arte non si possono vincere né le infelicità né i problemi del mondo. E anche quando come spettatori - come cinefili - tifiamo per Marilyn Monroe in Niagara o per Natalie Wood in Splendore nell'erba (due film di cui vediamo estratti espliciti sullo schermo), il film ancora una volta non modifica il suo finale - e chissà se il regista madrileno non abbia voluto anche citare Nanni Moretti e la scena di Il dottor Zivago di Palombella rossa.
Anzi, chissà se Dolor y Gloria non sia - invece che il suo 8 ½ - il suo Palombella rossa, uscito proprio trent'anni fa. Infine, questo film è naturalmente un nuovo "almodramma", un melodramma rimescolato da Pedro, dove si ritrovano Sirk, Stahl, Kazan e Fassbinder in un colpo solo, ma senza furia fiammeggiante o maestrie postmoderne, caso mai con la quieta nostalgia di Bergman e del suo Il posto delle fragole. Capolavoro.