The Weight

Un film di Jeon Kyu-hwan. Con Cho Jae-Hyun, Jo Jae-hyun, Park Ji-a Drammatico, durata 106 min. - Corea del sud 2012.
   
   
   

Una torbida poeticità Valutazione 3 stelle su cinque

di Dana_Scully


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venerdì 21 settembre 2012

“Questo non è il mondo in cui lui vive”: Jung non vive in un mondo libero, solare e felice come mostrano le immagini del breve prologo. Jung vive in un mondo torbido, scuro, malato e deviato. La sua casa è l’obitorio in cui lavora e trascorre il suo tempo, dove mangia, dorme e dipinge circondato dai corpi nudi, senza vita, poggiati sui tavoli freddi, a cui lui dedica tutto il suo amore e le sue cure affinché possano essere belli e sereni nel loro ultimo viaggio terreno.
Jung è nato con la gobba, abbandonato in orfanotrofio da bambino, è stato poi adottato da una donna fredda e priva di sentimenti che lo teneva nascosto in soffitta e lo sfruttava come manodopera per la sua sartoria. Il rapporto con il suo fratellastro, un ragazzino che vuole essere donna e con cui vive le prime esperienze sessuali, è il suo unico conforto e l’unica fonte di amore e calore. Cacciato da casa dalla matrigna e diventato adulto, Jung è costretto a  prendere una dose massiccia di medicinali per alleviare i dolori della tubercolosi e dell’artrite.
La malattia, il tempo passato all’obitorio, le fotografie dei cadaveri, i suoi dipinti e i corpi esanime sono tutto ciò che ha, finché il suo fratellastro non irrompe nella sua vita in cerca di denaro e aiuto per riuscire a cambiare sesso e diventare finalmente una donna. Accanto alla sua esistenza scorrono anche le vite di altri emarginati: maniaci, necrofili, persone deformi, psicologicamente turbate e deviate, dei morti viventi che si trascinano in un mondo che ormai è per loro una prigione, su cui grava sempre l’ombra e il peso dell’ineluttabile male, della solitudine, dell’inquietudine. In questo mondo buio e opprimente la felicità è relegata solo alle fantasie deliranti e grottesche di Jung, e solo attraverso la morte, i prigionieri che vorrebbero fuggire da se stessi, trovano finalmente la libertà.
Kyu-hwan ,rivisitando il tema del mostro, emarginato e giudicato dai “normali” trattato già da Hugo, ed  elaborando  un parallelismo tra la prigione delle convenzioni sociali e la prigione del corpo  mostra il malessere e  l’angoscia dei personaggi . Il peso della vita che devono sopportare colpisce e travolge lo spettatore, grazie ad un linguaggio estremo e poetico, alla forza delle sue immagini che mostrano con freddezza e distacco, in una messa in scena geometrica, fatta di pochi movimenti di macchina, gli aspetti più morbosi e repellenti dell’animo umano.
Unica pecca del lavoro di Kyu-hwan è, in alcuni tratti, l’eccessivo didascalismo, come nel caso delle farfalle che escono dal bozzolo e invadono lo schermo del televisore di Jung :un effetto digitale che non si integra affatto con lo stile crudo e poetico del film, una spiegazione superflua del significato della sua opera che intacca il pathos nato durante la visione.

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