Vedere The Shining di Stanley Kubrick al cinema è un’emozione per chi come noi, è nato troppo tardi per avere avuto la fortuna di farlo nel 1980. Giunge come una manna dal cielo la decisione dell’industria cinematografica di proiettarne la versione estesa, in coincidenza con l’uscita del suo sequel, “Doctor Sleep”. Sebbene il cinema sia una forma d’arte estremamente giovane, è sorprendente notare come un film di 40 anni fa abbia ancora la stessa eco e sembri tutt’ora all’avanguardia, in un’era completamente diversa da quella in cui è nato. Questa recensione vuole essere dunque un omaggio all’opera di un maestro che ha saputo fare del film un’arte completa, in grado di ammaliare, ipnotizzare, stupire, ma soprattutto educare e far riflettere. E fa riflettere ancora più oggi che nel passato, perché il vero cattivo nel film non è Jack, bensì Kubrick, che tramite il signor Ullman chiede allo spettatore quanto sia in grado di stare in solitudine con sé stesso. Ed invero: quanto sappiamo stare da soli, nell’era del social network?
Guardiamo a come il regista ci presenta l’Overlook Hotel: non ci risparmia un briciolo dell’isolamento di quel luogo. Non siamo abituati alle vaste distese della Natura, ma al brusio della vita frenetica in città, ed il regista lo sa bene, quindi ci delizia con spazi disabitati finché non ci sentiamo a disagio. Lo stesso Stuart Ullman insiste durante il colloquio nel ricordare a Jack quanto l’hotel sia isolato e quanto non si possa avere possibilità di contatto umano, scegliendo il lavoro che gli sta offrendo. Jack Torrance è una persona del tutto normale: uno scrittore che ha da poco cessato di fare l’insegnante. La moglie Wendy ed il figlio Danny sono presentati anch’essi come membri di una famiglia modello, ma si capisce ben presto che c’è qualcosa di poco chiaro, nascosto sotto la superficie. Danny ha un amico immaginario, Tony, un bambino che vive dentro la sua bocca, che gli mostra perché non vuole andare all’Overlook Hotel. A quanto pare c’è ben poco di immaginario in Tony. Per Kubrick, Tony vive dentro ognuno di noi, ma solo alcuni hanno il dono della “luccicanza”: vedere e sentire aldilà dell’evidenza. Nessun adulto prende sul serio il rapporto che Danny ha con Tony, e lo screditano come un frutto della sua immaginazione. Solo Dick Hallorann, un cuoco dell’hotel, si rende conto che Danny ha il dono della “luccicanza”, e come ci dice Kubrick tramite la sua voce, “molti la hanno, ma non sanno di averla”. Questo è il motivo per cui Danny conosce l’esistenza di due gemelle, il cui fato è misteriosamente legato alla stanza 237. Vedere o non vedere? Questo è il problema. Perché Danny capisce immediatamente che il padre sta cambiando, quando tutti gli altri incluso Jack non se ne accorgono? E come fa Jack a vedere cose che gli altri non vedono? Anche Jack ha la luccicanza ma non lo sa.
Kubrick usa tre figure per porci di fronte ai due poli della visione del mondo. Da un lato abbiamo lo sguardo innocente e benevolo del bambino libero da pregiudizi, e dall’altro quello dell’uomo adulto intrappolato dalle proprie paure, che si addentra nel labirinto della propria mente e non è più in grado di uscirne. Jack non è in grado di usare la luccicanza come uno strumento di bene, ed in mano sua serve solo ad esacerbare i suoi demoni interiori e a dare potere a delle ombre che altrimenti, come dice lo stesso Tony, non possono fare del male a nessuno. Tra le due facce della medaglia si interpone la figura passiva di Wendy, l’unica che non riuscendo ad andare oltre a ciò che vede, si adatta ad ogni situazione che si presenti restandone estranea.
A seguito del trasferimento della famiglia nell’Overlook Hotel e col passare dei giorni, giunge la neve e con essa il rovinoso viaggio di Jack verso il centro del proprio Io.
Il percorso di Jack è rappresentato da alcuni simboli: la presenza di elementi di colore rosso, le figure del barista Lloyd e di Delbert Grady, il labirinto di fronte alla facciata dell’hotel, il sogno e il peso del senso della responsabilità. Dal momento in cui Jack inizia a camminare nei meandri del suo subconscio, l’hotel inizia a colmarsi di elementi rossi, il colore della rabbia furiosa che Jack porta con sé ma non ha mai voluto vedere. Il barista Lloyd non è altro che il subconscio di Jack che lo pone di fronte alle sue paure e ai suoi desideri soppressi, come l’alcool, un desiderio sessuale represso e l’ossessione verso il senso del dovere. Tutto ciò è troppo per Jack, che sogna di potersi liberare della sua famiglia, ma quando si sveglia preferisce dimenticarne il pensiero. Lloyd incarna quella parte del subconscio di Jack che vuole fargli osservare sé stesso allo specchio, ma quando questi si accorge che Jack non vuole ascoltare, interviene Grady. Egli è invece la rappresentazione del desiderio di fuga che Jack ha nascosto nel proprio subconscio, ed è colui che lo spinge a “punire” i membri della sua famiglia.
Inizia così la liberazione di Jack da quelle che sembrano apparentemente essere le ombre degli incubi che lo perseguitano. Se ne libera affrontandoli con una violenza che si traduce poi in una furia omicida che rivolge all’esterno. Ma non è tutto qui: Kubrick cela dietro a tutto questo un mistero ancora più oscuro, che Jack non riesce ad accettare. E chiaro, perché il regista gioca con la mente dello spettatore, quando gli propone l’idea che la follia del personaggio abbia origine da problematiche un po’ troppo comuni per giustificare tanta furia. Cosa nasconde Jack che non riusciamo a vedere? Jack ha molestato sessualmente il figlio Danny e non riesce ad accettarlo. I simbolismi che Kubrick usa per farcelo capire sono moltissimi. La scena in cui Jack fa sedere il figlio in grembo si chiude in modo repentino, inquietante e con uno stranissimo comportamento del padre. La scena che segue, in cui Danny entra nella stanza 237 è un sogno nella mente del bambino, in cui giustifica la violenza subita come un gesto compiuto da uno spettro e si chiude prima che il bimbo si veda riflesso nello specchio. Non a caso il maglione che Kubrick gli fa indossare è un chiaro simbolo fallico rivolto verso il suo viso. Ma le ombre non possono ferire, ormai lo sappiamo: è stato Jack a strangolarlo, ed è l’unica volta in cui Wendy dice il vero. Jack non vuole più vedersi allo specchio, per questo evita il proprio riflesso mentre si reca verso la stanza dorata, ed è per questo che ha bisogno dell’intervento di Lloyd per tirargli su il morale. Abbiamo inoltre la ricorrenza degli orsi nel film, la scena in cui Wendy vede un uomo vestito da orso in chiari atteggiamenti omosessuali con un ospite dell’albergo, ed un sacco di altri riferimenti sessuali celati nelle conversazioni per voce di Danny.
Per Jack dunque è chiaro ciò che deve fare per rammendare quanto ha fatto: deve massacrare la sua famiglia.
Jack però è condannato a restare per sempre nell’Overlook Hotel, non potrà andarsene.
La sceneggiatura è tra le migliori della storia del cinema, tanto piena di simbolismi da far girare la testa. L’uso dei colori è forse l’aspetto più geniale della composizione del regista; rende efficace lo storytelling rendendo superflui i dialoghi. I personaggi dotati di luccicanza sono i migliori interpreti nell’opera, grazie alla loro espressività e alla loro capacità di esprimere la psiche del personaggio.
Impossibile uscire dal cinema senza avere la mente piena di dubbi: si entra in sala per vedere un film horror e si esce consci che Jack esiste dentro ognuno di noi.
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