Ron Howard continua a parlare di temi universali affidandosi a un gioco delle parti. Su Netflix.
Elegia Americana avrà anche un titolo generico, ma sicuramente azzeccato. Il film è infatti tipicamente elegiaco nelle tinte malinconiche color pastello che compiangono una realtà infelice.
Si tratta della trasposizione cinematografica dell’autobiografia di J.D. Vance, di un uomo ora riscattato ed emancipato dalla sua realtà natale. La sua, come per molti, era quella di una madre eroinomane, preda di un malessere che distorce lo sguardo di suo figlio sul mondo. Un mondo amaro e tossico nel quale è immerso fin oltre il collo.
Lo scenario è allora un déjà-vu a cui il recente cinema americano sembra essere instancabilmente affezionato. Esempi recenti e apprezzati sono stati Honey Boy e Beautiful Boy (guarda la video recensione), dal titolo simile ma dai ruoli rovesciati: il primo più aderente all’Elegia, se non altro per la parte genitoriale violenta e tossicodipendente che inquina le esistenze dei rispettivi figli; il secondo, invece, mette in scena una comunicabilità padre-figlio intermittente, minata sì dall’uso di droghe, ma questa volta assunte non dal genitore.
In Elegia Americana tutto ci viene raccontato allegandoci stralci di un’infanzia traumatica e insana. La trama non è una narrazione drammatica diluita in un tempo lineare, ma un viluppo di flashback ed episodi indelebili, una testimonianza lunga due ore di una inequivocabile disfunzione familiare. Ma è anche la prova che il passato non è prescrittivo, che non per forza riduce i suoi protagonisti a mere vittime da stigmatizzare. Il messaggio forte, seppure dato sottovoce, è che questa non è una storia vera, ma è la storia vera: è l’american dream di una generazione dopo l’altra, nonché la rivincita di intere comunità hillbilly ––quelle montanare del mid-west–– nello svincolarsi da contesti sociali e familiari castranti ed emergere, piuttosto, in quelli dominanti del capitalismo e perbenismo bianco.
Una questione dalle ovvie implicazioni socio-politiche dalle quali, però, il regista del film pare discostarsi, soprattutto rispetto al libro da cui è tratto, pubblicato nel 2016 e forse non casualmente proprio nell’anno dell’elezione di Trump. Il sottotitolo di Hillbilly Elegy, “A Memoir of a Family and Culture in Crisis”, faceva dunque molta più eco all’opinione pubblica dei “bianchi poveri” statunitensi (decisivo bacino elettorale per, l’ormai ex, presidente) di quanto ci riesca adesso il suo rifacimento netflixiano.
Questo, allora, l’innesco principale di una sequela di critiche aspre e impietose abbattutasi su Elegia Americana, in principio, invece, immaginato come un papabile candidato per gli Oscar.
Tirando le somme, l’ultima opera di Ron Howard –regista dei rinomati Apollo 13 e Rush– è retta da un gioco di forza tra temi universali trascendenti la matrice politica e facili, riciclati stereotipi, non per questo meno commoventi. Il disagio psichico della madre, interpretata da un’ istrionica Amy Adams dai capelli scompigliati e dai gesti furibondi e scellerati, è strillato e tuttavia preso spesso sottogamba. Quello psicologico-emotivo del figlio è invece suggellato dalla ruvida presenza di una nonna-seconda madre dalla morale incerta: è permissiva quando dovrebbe essere intransigente e viceversa. Il vero argine di J.D. diventa per forza di cose una maturità precoce che, comunque, si concede a momenti di rabbia tutta umana e puerile, in cui sofferenza e paura sono tutt’altro che latenti.
Quello a cui assistiamo, alla fin fine, è un “giuoco delle parti”, prendendo sommessamente in prestito le parole pirandelliane. Il figlio diventa genitore nel momento in cui sua madre non è in grado di essergli tale –– pur non ammettendolo mai del tutto –– e non gli resta che fare del suo vissuto una scocca per il futuro che lo aspetta, quello americano altolocato, imbalsamato però da ben altro tipo di ipocrisie.