Molti giovani star britanniche e americane in un cast che è una vera fusione alchemica di talenti, rafforzata dal regista Alex Garland che apporta un enorme acume formale. E una sana avversione per lo sciovinismo americano. In anteprima il 16 e il 17 e dal 21 agosto al cinema.
I registi americani sono diventati così bravi nel rappresentare la guerra – talento corroborato dagli effetti digitali – che ogni nuova uscita diventa un’altra occasione per ‘godersi’ morte e distruzione. Con Warfare – tempo di guerra, Alex Garland e Ray Mendoza contrastano questa tendenza, facendosi carico del complesso rapporto tra guerra e cinema e avvicinandosi a una visione accurata, non glamour e non idealizzata, del combattimento. Operazione difficile e controintuitiva, perché la violenza è naturalmente cinematografica. Suoni allora come un elogio che Warfare non è affatto emozionante. È un film crudo e implacabile sulla vita e la morte in battaglia, volutamente mesto e furioso. Un lamento e insieme un monito per riflettere sulla presunta utilità di certe operazioni militari che, come la guerra, causano solo dolore e distruzione.
Questo è il punto centrale di una fiction basata su fatti reali, che segue un plotone di Navy SEAL statunitensi durante una missione disastrosa in Iraq nel 2006. A Ramadi, dentro una notte altrimenti tranquilla, le truppe occupano la casa di una famiglia locale, e giustamente allarmata, mettono sotto sorveglianza gli abitanti e sorvegliano l’edificio di fronte. In tempo reale, i soldati osservano e aspettano, seduti, in piedi, sdraiati, binocolo, radio o fucile alla mano. Scrutano nervosi fuori dalle finestre, in nome di una causa che nessuno spiega mai chiaramente. A un lungo periodo di attesa e tensione seguirà un’improvvisa esplosione di violenza, la guerra ‘per davvero’, co-sceneggiata e co-diretta da Alex Garland e Ray Mendoza, che adatta i suoi ricordi bellici per il film.
Ancora una volta insieme dopo Civil War, la distopia di Garland realizzata dopo l’attacco al Campidoglio e distribuita prima della rielezione di Donald Trump, il tandem culto, nel film Mendoza era consulente militare, tenta l’impresa, una delle scommesse più audaci del cinema in termini di regia, accuratezza narrativa ma anche etica. Perché Warfare è un film di guerra che rifiuta di intrattenere. Un film di guerra che non comincia con un battaglione di soldati ma uno squadrone di donne scultoree che si dimenano in una palestra di aerobica e nel video musicale di Eric Prydz, “Call on Me”. Il suo controcampo è un pubblico di giovani soldati che si affollano intorno a un monitor. Un’esplosione sì, ma di chiassosa follia e di piacere collettivo. Gli uomini ondeggiano insieme, indistinguibili nel coro e nella coreografia ludica, un attimo prima di scivolare nel silenzio di una città senza nome.
Prima di riconoscere i loro volti, alcuni più noti - Will Poulter (Guardiani della Galassia Vol. 3), Noah Centineo (The Fosters) e Charles Melton (May December) – a restare impresso è il “salto al nero”, i movimenti e i gesti coordinati, la destrezza con cui quegli stessi uomini si dispongono in formazione e avanzano nella notte buia. Per portare a termine la missione, Mendoza - sedici anni nei Navy prima di diventare formatore per le giovane reclute - sa meglio di chiunque altro che bisogna poter contare sui buoni soldati.
La scelta brillante di molte giovani star britanniche e americane spendibili sul mercato si rivela azzeccata. Joseph Quinn (Stranger Things), Kit Connor (Rocketman (guarda la video recensione)), Taylor John Smith (Sharp Objects), Finn Bennett (True Detective: Night Country), Michael Gandolfini (I molti santi del New Jersey) e Adain Bradley (Beautiful) formano un saldo contingente anglosassone, un esercito impegnato in un esercizio di claustrofobia che avvolge progressivamente lo spettatore. Una fusione alchemica di talenti, rafforzata da almeno due dimensioni di rigore: Garland apporta un enorme acume formale e forse, grazie alla sua britannicità, una sana avversione per lo sciovinismo americano, Mendoza si basa sulla sua difficile esperienza di evacuazione a Ramadi. Anche per questo le interpretazioni sono secche come una fucilata, tranne quando gli uomini feriti urlano di dolore, muoiono di dolore.
Se il racconto appartiene a Mendoza, Warfare ritorna sul suo trauma iracheno, il DNA del film è di Garland. L’autore è sempre abile nel trasformare spazi tranquilli in zone di terrore inesorabile, di orchestrare il pericolo in ambienti ostili e il cameratismo teso in spazi ristretti. Sceneggiatore di 28 anni dopo, che sotto la differente superficie assomiglia a Warfare, Garland racconta lo stesso viaggio iniziatico: la guerra che trasforma il bambino in uomo, il ballerino in soldato. In Warfare i giovani soldati vivono l’esperienza del combattimento, un percorso interiore che li trasforma in tempo reale. Soprattutto, nei due casi, i personaggi evolvono in spazi chiusi dai quali devono urgentemente uscire, un’altra ossessione garlandiana da Ex Machina. L’isola britannica di 28 anni dopo e la casa assediata di Warfare risuonano secondo una logica da bozzolo, in cui la claustrofobia diventa il peggior nemico.
Questa coerenza rivela la singolarità di Garland, autore che naviga tra media diversi (romanzo, sceneggiatura, regia, videogiochi), anticipando i tempi senza pretendere di essere un profeta. Né antimilitarista né patriottico, tanto meno eroico, né documentario né romanzato, Warfare sfida tutto quello che abbiamo già visto sulla guerra sul grande schermo. E la guerra non è mai così brutale come quando usciamo dai codici della finzione, una gamba amputata non può essere recuperata, non si sopravvive a una granata che esplode a un passo da noi. Immersi nella complessa logistica della sopravvivenza - interventi medici improvvisati in modo brutale, ripetute richieste di evacuazione e tentativi di distrazione del nemico, utilizzando granate fumogene o richiedendo una “dimostrazione di forza” da parte dei caccia che sfrecciano sopra le loro teste – diventa difficile distinguere gli attori sotto il fuoco dell’azione. Ma del resto Warfare segue prima di tutto la storia di un gruppo, un corpo militare (e attoriale) di cui vediamo chiaramente i volti soltanto nella scena iniziale, l’unica scena ‘musicale’. Tutto il resto beneficia di un allucinante e immersivo sound design (Glenn Freemantle) che mescola grida, paura, dolore, sangue freddo, coraggio.
Coordinati (letteralmente) da Ray Mendoza (e il suo doppio fittivo), gli attori incarnano la precisione delle forze armate nelle situazioni più caotiche. Il ruolo che fu di Mendoza è interpretato da D’Pharaoh Woon-A-Tai (Reservation Dog), gli altri membri del cast usano nomi diversi da quelli dei veri combattenti, che appaiono sui titoli di coda. Una serie di fotografie affiancate: ecco i personaggi che avete appena visto ed ecco le persone reali che li hanno ispirati. Si tratta di una procedura standard nei film biografici, che spesso sa di imitazione pornografica, un’occasione per ammirare l’abilità degli attori e la somiglianza raggiunta tra l’interprete e il soggetto. Ma Warfare non è un film biografico, è un film di guerra e non si cura affatto della mimesi. Molti dei soggetti reali, quasi tutti membri dei Navy SEAL statunitensi hanno il volto sfocato nelle foto, presumibilmente per motivi di sicurezza e/o privacy. La scelta è in linea con il metodo del film, concentrato sul processo piuttosto che sulle personalità, le interpretazioni sono ridimensionate e praticamente private della loro individualità.
In Warfare non ci sono monologhi degni di un Oscar, soltanto combattimenti e ancora combattimenti, esplosioni, fumo, caos e una grande serietà di fondo, così rara nei film americani contemporanei. Perché Mendoza sa meglio di chiunque altro che la guerra è un inferno e quell’inferno è soggetto a regole e regolamenti, comprese le leggi del tempo e della fisica. E allora Warfare combatte una guerra tutta sua, contro le tendenze a semplificare (e glorificare) e le convenzioni classiche del genere. Non ci sono battaglie feroci che si concludono nel giro di pochi minuti, né viaggi lunghi chilometri che si riducono con una comoda dissolvenza, né salvezza nel caos… Warfare appartiene alla categoria troppo rara dei film di guerra ‘atipici’ (Guadalcanal ora zero, Redacted), da cui si esce con le urla dei soldati nelle orecchie e niente morfina per le nostre coscienze.