La magistrale interpretazione di Arthur Fleck nel Joker di Todd Phillips è valsa al sofisticato attore la statuetta come Miglior attore protagonista.
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Che Joaquin Phoenix si accaparrasse con la sua interpretazione in Joker (guarda la video recensione) la statuetta come miglior attore non è stata una sorpresa. Attore sofisticato, misterioso, dalle coordinate poco identificabili. Si capiva che Joaquin Phoenix poteva regalare una grande interpretazione dietro quella maschera iconica, dal sorriso forzato, tagliato o insanguinato a seconda delle versioni che si sono susseguite. Era chiaro già dal primissimo piano allo specchio con cui il film si apre che le note del personaggio gli erano care, come se l'attore potesse con grande naturalezza calcare quella sua indole interpretativa che lo vede un po' personaggio border line, ai limiti del "normale" (anche per le stranezze e le crudeltà che avvolgono la sua biografia); come a volte trapela da interviste o conferenze stampa un po' fuori dagli schemi, con divagazioni quasi jazzistiche che spiazzano tutti. Insomma un attore non facilmente malleabile per la direzione di un regista, uno che può portare il materiale verso la sua strada, ma quale?
Abbandonato l'universo fumettistico d'origine, questo Joker è come se si collocasse accanto. Non cancella quelle versioni ma se ne accosta, scorrendo loro a fianco, così come uno spin-off prende spunto da un altro ramo della storia. Arthur Fleck è un uomo comune, vittima di un'infanzia dolorosa, privato degli affetti della vita (primo fra tutti quello della madre), è uno scarto della società dei consumi e dello spettacolo. Insomma questa è la nuova chiave di lettura che il film impone sul personaggio. Come non sentirlo vicino? È un terreno misterioso e affascinante quello che vede confrontarsi regista e attore sulla costruzione di un personaggio. Una sorta di partita, un gioco che a volte perde le coordinate tracciate e prende direzioni inaspettate; è una magia che lascia la sceneggiatura e si crea sul set. Ed è questa magia che regala a volte il cinema iscrivendo nella storia personaggi che restano memorabili; è questo ciò che è successo al Joker di Phoenix, anche se la storia dei suoi predecessori non era per niente banale (Heath Ledger, Jack Nicholson, Jared Leto...). Sul modo in cui l'interpretazione viene costruita da Phoenix molto potremmo dire. Sui suoi primissimi piani strazianti, sulla relazione che instaura con la macchina da presa, sulla sua risata tragica quasi un pianto di dolore. Sicuramente ciò che emerge è una lettura fisica del personaggio, un lettura che si fa ritmo, spostamento di un volume nello spazio nel corso della sua trasformazione da Arthur Fleck a Joker. Un corpo muore e un altro nasce sotto la stessa pelle. Come la muta di un serpente che si trasforma attraverso una danza rituale: il primo si congeda con un inchino, l'altro entra in scena sotto le luci del palcoscenico.
La muta avviene nella famosa scena del bagno in cui Arthur si rifugia fuggendo dopo aver ucciso per la prima volta. Sotto quella luce verdastra la morte del cigno libera il suo nuovo io: Arthur improvvisa passi per la prima volta armonici e fieri. Da questo momento in poi non sarà più possibile vedere Arthur Fleck. Il suo corpo, impacciato e goffo nelle prime scene, lascia il posto ad un corpo che ostenta la sua camminata, sicuro di sé e della sua identità. Sulle scale che ogni giorno lo riconducevano a casa Arthur trascinava il peso della sua vita, ma quando a scendere quelle stesse scale sarà Joker sarà un corpo possente che esplode in una danza liberatoria. La scena del bagno è stata raccontata dal regista come un corpo a corpo col suo attore, mentre la troupe era chiusa fuori. Improvvisata sul momento, scartando ciò che prevedeva la scena sul copione. Le note che Phillips usa per ispirare il suo attore (la bellissima musica di Hildur Guðnadóttir che vince non a caso l'Oscar) portano Phoenix verso la liberazione catartica del personaggio. Questa scena è una crepa nella narrazione: Phoenix si mette a ballare, il film smette per un attimo di incasellare fatti, cause e effetti, il tempo si dilata. Il regista lascia dirigere il gioco all'attore lasciando tutto nelle sue mani. è sempre un momento di confine quando il film fa ballare il suo attore. Non si sa cosa voglia diventare, verso dove voglia andare. L'attore è questa materia grezza che ad un certo punto si mette a creare. Non è solo un interprete di una partitura, è un autore a tutti gli effetti. Più grande è l'attore più personale è la sua creazione, anche se diretta da un direttore d'orchestra. L'attore non si sa bene cosa faccia e perché lo fa. Sicuramente instaura un rapporto tutto personale con la macchina da presa e detta con la sua fisicità il tipo di sguardo da portare su di sé. La scena sembra emanare da ciò che l'attore fa sul suo corpo, sul gesto, sulla voce. È un'alchimia fra lui e l'occhio della macchina da presa. E poi fra questa e noi spettatori. La chiave che sembra trovare Phoenix è quella di una musicalità del suo corpo, che non è solo un brano che ispira la recitazione, è molto di più: è un ritmo da dare al suo personaggio prima ad Arthur Fleck - il corpo goffo, curvo - poi a Joker, il corpo esplosivo che occupa diversamente lo spazio dell'inquadratura. La colonna sonora è stata di grande ispirazione per il regista nel suo modo di dirigere Phoenix (Phillips racconta di aver scoperto la talentuosa compositrice proprio mentre scriveva la sceneggiatura). Su questa partitura sonora l'attore innesta poi una sua personale partitura fisica: una danza che viene modulata prima sulle note grevi del violoncello, monocromatiche come il verde della fotografia della scena del bagno. Poi sul rock esplosivo di Gary Glitter nella scena in cui scende le famose scale. E se il valzer di Chaplin sui pattini per Arthur rappresenta un mondo antico, un'innocenza perduta -come il cinema muto-, sulle note di Frank Sinatra che canta "That's life" si chiude il film: il clown scappa inseguito dai medici in un lungo corridoio bianco. Una "danza" slapstick che ormai ostenta la più grottesca commedia umana.