Regista e protagonista raccontano Nostalgia, in concorso al Festival di Cannes e da oggi al cinema.
Mario Martone ha presentato il suo ultimo film, Nostalgia, in concorso al Festival di Cannes: per il regista napoletano si tratta della seconda volta nella massima sezione del Festival, 27 anni dopo L’amore molesto. In un incontro con la stampa italiana, accompagnato dalla moglie co-sceneggiatrice Ippolita Di Maio, dall’attore protagonista Pier Francesco Favino e da Aurora Quattrocchi, splendida figura di madre anziana nel film, Martone ha parlato dell’origine e del senso di Nostalgia.
La vicenda di Felice Lasco, napoletano che torna al Rione Sanità dopo quarant’anni di lontananza, fa pensare alla frase finale di Chinatown di Polanski, quando al protagonista viene detto che da «Chinatown non si può uscire»…
MM: Mi fa piacere cominciare a parlare pensando al film di Polanski! In effetti, il Rione Sanità, dove avevo già ambientato attraverso Eduardo Il sindaco del Rione Sanità (guarda la video recensione) (2019), è un luogo cinematografico, un posto dell’anima. Non lo definirei un quartiere, ma un labirinto, uno spazio urbano popolato di persone.
La Sanità, come la chiamano i napoletani, era già al centro del romanzo di Ermanno Rea dal quale il film è tratto. Cosa è rimasto del testo originario?
MM: Dal romanzo, che ci è stato proposto dal produttore Luciano Stella e che abbiamo scelto grazie al fiuto di Ippolita, che in queste cose è sempre più avanti di me, è rimasta l’idea fondamentale di girare tutto dentro un solo quartiere. Nostalgia non è ambientato a Napoli, ma nel Rione Sanità, e non è una sfumatura da poco. La Sanità è una enclave che nemmeno i napoletani conoscono bene, un luogo tentacolare, “borgesiano” mi verrebbe da dire, in cui i personaggi si muovono ciascuno seguendo la propria strada, indipendentemente dagli altri. Al tempo stesso, però, sono gli incontri a definire il racconto, a farlo progredire, e a dare alla vicenda una dimensione cinematografica.
Questa dimensione quasi astratta ha condizionato anche il tuo stile?
MM: Direi proprio di sì. La Sanità è un luogo pieno di umanità e il film doveva per questo essere girato “buttandosi in strada”, in una sorta di ripresa delle premesse del neorealismo, incontrando le persone del quartiere. Lo spazio che filmiamo è fuori dal tempo, un far west, ha qualcosa di mitologico. Ad esempio, nella Sanità ci sono le catacombe, per molti è ancora oggi una “valle dei morti”, un luogo di fantasmi, sospeso tra presente e passato; al tempo stesso è un luogo vivo e intorno al protagonista dovevamo creare dei rapporti forti, portando nel film la realtà vissuta sul set.
La presenza e l’esperienza di Pier Francesco Favino sono dunque fondamentali per la riuscita del film…
PF: Fatico a parlare in termini razionali del lavoro, dell’esperienza fatta per Nostalgia. Per me si è trattato di un lavoro viscerale e ora che siamo qui a presentarlo posso solo raccontare le emozioni che ho vissuto. Il film è stato un luogo, uno spazio, un tempo. E come il mio personaggio, anch’io mi sono perso. La Sanità è ammaliatrice, non è possibile piegarla alle leggi del cinema e non per caso sono stato io a dovermi piegare alle sue regole, trovando zone di me che non conoscevo. La Sanità è la vera protagonista di Nostalgia, anche se al di là di tutti i discorsi che possiamo fare trovo che il film sia in fondo molto semplice: è una storia d’amore e d’amicizia.
Cosa significa per entrambi, regista e attore, l’idea di perdersi?
MM: Rispondo pensando al finale del film, che per me è stato una vera perdizione. Non so perché il film (e il romanzo) finiscano in quel modo, e questo me lo sono chiesto sovente durante le riprese. In quelle settimane ero perso nel mondo che raccontavamo e per aggrapparmi a qualcosa mi sono affidato alle parole di Rea: per lui il labirinto doveva fermarsi lì, ed è stato così anche per me. In Nostalgia c’è qualcosa di chiunque ha lavorato alla sua realizzazione. Io, Ippolita, Pier Francesco e il resto del cast abbiamo abbiamo sentito risuonare parti di noi stessi nella storia: spero avvenga lo stesso per gli spettatori.
FP: quando ho letto il romanzo ho pensato che ciascuno di noi, dentro di sé, ha un sud del mondo, un magnete interno, una presenza arcana. Paradossalmente, la Sanità, così connotata, potrebbe essere qualsiasi luogo del mondo. Napoli diventa un altrove. E Felice, che si ritrova nell’altrove, finisce per ritrovare sé stesso. La sua vicenda ha qualcosa di arcaico, perché l’idea di tornare è più importante del luogo in cui si torna. Trovo che lasciarsi portare dall’incertezza sia un gesto artistico e creativo fortissimo.
Ma in definitiva, chi è Felice Lasco per voi?
MM: è certamente un personaggio atipico nel cinema italiano. Non è un eroe, ha motivazioni difficili da comprendere, un’emotività e degli scatti che non ti aspetti. Fin da subito con Ippolita abbiamo pensato che in lui c’era qualcosa di inesplorato.
PF: Penso alla questione della lingua, così importante per il personaggio. Il suo arco di evoluzione sta racchiuso nelle lingue che parla, nel trovare ciò che non sapeva più di avere. All’inizio Felice parla solo arabo, poi ritrova il suo napoletano. E il napoletano non è una cadenza, ma una vera e propria lingua, fatta di silenzi, ritmi, respiri. Per questo il lavoro che abbiamo fatto non è semplicemente un virtuosismo: parlare significa far battere il cuore, entrare nella testa di un personaggio. Studiando l’arabo mi sono ad esempio accorto che in quella lingua non esiste il verbo avere: in arabo una cosa è “a te”, come nel napoletano, e in questi legami ho trovato elementi inaspettati. Da ragazzo Felice è stato strappato dal suo mondo, è stato costretto a diventare altro, e poi, quarant’anni dopo, si convince a ricominciare, a ritrovare sé stesso. Come lui, anch’io ho dovuto acquisire un altro corpo, un’altra estetica. È stato per entrambi un percorso di crescita, fino ad arrivare a parlare una lingua madre.