Continua la dialettica sul documentario di Gianfranco Rosi.
Il tuo browser non supporta i video in HTML5.
Continua la dialettica su Fuocoammare, il documentario di Gianfranco Rosi, che è stato scelto a rappresentare l'Italia nella selezione per l'Oscar. Non tutti hanno apprezzato. Una premessa: Rosi è un ottimo documentarista. Fuocoammare racconta la vicenda di Lampedusa attraverso gli occhi di un ragazzino che nonostante tutto riesce a vivere da ragazzino. "Tutto" significa i migranti di passaggio laggiù che, dopo aver attraversato il mare, con tanti morti, cercano di raggiungere terre promesse. Una menzione per Pietro Bartolo, il medico che visita tutti e che conosce tutte le storie.
Sono due fra i più prestigiosi premi del panorama internazionale. Significa che entri nel cartello dei maestri di cinema. Rosi ne fa parte senza aver mai firmato un film "vero". Diciamo che è stato favorito dalle circostanze. Lo è stato troppo. La mostra di Venezia viveva un imbarazzo ormai pesante, rispetto al cinema italiano. Non vincevamo un Leone d'oro dal 1998, con Così ridevano di Gianni Amelio. In assenza di film, veri, all'altezza, si pensò di aggirare regole, identità e filosofia, del cinema premiando un documentario, certo di qualità, come ho detto.
Fuocoammare è stato scelto da una preselezione che comprendeva: Perfetti sconosciuti di Paolo Genovese, Lo chiamavano Jeeg Robot di Gabriele Mainetti, Suburra di Stefano Sollima, Pericle il nero di Stefano Mordini, Indivisibili di Edoardo De Angelis e Gli ultimi saranno ultimi di Massimiliano Bruno. Il film più adatto, non c'è dubbio, sarebbe stato Perfetti sconosciuti che presentava un dato che i selezionatori non perdonano: ha avuto successo. Solo che non poteva valersi del contesto, ardente, storico, planetario: i migranti. Tutto dirige in quel senso. I muri: l'Ungheria sta ultimando la costruzione del suo lungo il confine con la Serbia; Bulgaria e Grecia hanno già alzato le loro barriere lungo i rispettivi confini con la Turchia. I tre Stati intendono impedire ai migranti di entrare illegalmente nei loro territori. I migranti sono il primo tema nell'agenda dei leader europei, i più importanti. Hollande ha visitato il lembo di Calais, dove migliaia di rifugiati cercano di raggiungere, in tutti i modi, l'Inghilterra. Una vera polveriera. Anche la Merkel è impegnata, quasi a tempo pieno, in una mediazione molto delicata. E poi naturalmente le nostre coste. E Lampedusa, l'isola "ab origine". Tutto questo diventa un'onda lunga, un megafono, uno scenario sui quali un'opera come Fuocoammare può rappresentare il modello perfetto. Il titolo ha dunque ricevuto spinte da forze enormi. Troppa grazia, come ho scritto sopra.
Mi viene in mente lo slogan di una pubblicità: "ti piace vincere facile?" È come quando viene testato un prodotto. Il marketing studia il momento, il mercato, la fasce, la penetrazione e poi lancia il prodotto. Ecco, in questa vicenda il titolo di Rosi, non è bello dirlo, è diventato un prodotto. Politico per di più. Il cinema messo da parte e schiacciato. Secondo le intenzioni italiane certo, perché Fuocoammare non vincerà l'Oscar e neppure entrerà nella cinquina dei film in lingua non inglese che se lo contenderanno.
Ci pensa già Venezia a esaltare titoli politici, etnici, amati da qualche specialista scollato dal senso comune (del cinema), lontani dal grande pubblico che pure qualcosa dovrebbe contare. Ma c'è dell'altro, Fuocoammare è stato iscritto anche nel concorso "documentari". Pessima idea: e altro slogan: "paghi uno, prendi due". Qualcuno va già dicendo che ormai non sussiste differenza fra film e documentario. Non è vero, la differenza c'è, per fortuna. Questo mio intervento non è versus Rosi per il quale ho mostrato apprezzamento, e al quale auguro un giorno un film vero che legittimi la sua appartenenza al cartello; è rispetto al sistema italiano oppresso dalla politica e dal sociale ad ogni costo. Cosa diranno, dovunque siano, De Sica e Fellini, 9 Oscar in due, se mai Rosi dovesse vincere la statuetta? Che bello saperlo.