Da sceneggiatore e regista, Massimiliano Bruno è sempre andato alla ricerca di un cinema leggero e satirico. Con un obiettivo dichiarato: incassare bene. Al cinema.
Il tuo browser non supporta i video in HTML5.
Raramente si ragiona in termini di industria culturale, quando si parla di cinema italiano. Il pubblico, giustamente, non ha voglia di discutere sul tipo di film da produrre in Italia; vuole semplicemente vederne di buoni, e preferibilmente appartenenti al genere della commedia. I critici, invece, dovrebbero fare il percorso contrario: non accontentarsi di giudicare il singolo esito ma comprendere se si muova alle sue spalle un'idea creativa e promettente di cinema per il grande pubblico. Massimiliano Bruno, da questo punto di vista, è la classica cartina di tornasole. Con i suoi film, il bicchiere è sempre mezzo pieno o mezzo vuoto, a seconda di quale gusto o prospettiva si applichi, ma non è mai completamente vuoto.
Non ci resta che il crimine è l'ultima evoluzione del cinema di Bruno. Certo, da sceneggiatori come Guaglianone e Menotti ci si sarebbe aspettato ben altro (avendo a disposizione il ricco scrigno degli anni Ottanta, molto sfruttato di recente), e tutto sembra come fiaccato dalla mancanza di mezzi. Raramente lo sforzo di contenere le spese (si tratta, in qualche modo, di un film in costume) è stato tanto visibile, con moltissimi interni, scene collettive minimaliste, e scorci di campagna un po' arrangiati.
Tuttavia, se mettiamo gli occhiali dello studioso di industria cinematografica, può darsi che il cinema italiano popolare abbia bisogno di film come Non ci resta che il crimine. Da una parte, il team attoriale conferma una costellazione attraverso cui la nostra produzione ha tenuto in piedi la baracca negli ultimi anni - e alla fine, pur in preoccupante assenza di sostituti, bisognerà a un certo punto ringraziare Alessandro Gassman, Marco Giallini o Edoardo Leo per aver tenuto sulle spalle la commedia in questi 10-15 anni mostrando professionalità e sostanza.
Dall'altra, alcune scelte di casting - la crudeltà del De Pedis interpretato proprio da Leo - propongono evoluzioni interessanti, con un'attenzione alla trama criminosa più intensa del previsto. Il resto lo fa la parodia della mania "crime" del momento, con il protagonista talmente istruito sulla vicenda della Banda della Magliana da poter muoversi con acume nel passato in cui si trova imprigionato.
Le citazioni da Non ci resta che piangere (cui si allude fin dal titolo) lasciano sinceramente interdetti, vista la differenza galattica tra i due prodotti, da tutti i punti di vista. In più, questa ulteriore fuga dalla realtà (Moschettieri del re è un altro esempio, ma vale anche per altri film italiani del Natale 2018), ci sta forse dicendo qualcosa delle difficoltà di lettura del presente che attraversa il cinema italiano.
Bene il ritorno dei generi - dal thriller all'horror, dal cinepanettone al fiabesco - ma chi se non gli autori di commedia dovrebbero aiutarci a raccontare la nazione in crisi economica, piena di risentimento sociale, attraversata da contraddizioni sul lavoro e in famiglia? Detto questo, Non ci resta che il crimine ha uno scopo ben preciso, tutt'altro che esecrabile: incassare bene. Se lo fa, dal punto di vista industriale ha ragione Massimiliano Bruno.