Il sadismo di Parker non è l'esagerazione, ma la dimensione pratica, la ricaduta, la natura stessa dello stato di cose politico dell'epoca. Al cinema.
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Questo 2016 verrà ricordato dalla cultura e dalla società americana come un anno di sconvolgimenti drammatici. Non si tratta solamente della vittoria di un Presidente destinato a dividere seccamente gli elettori e i cittadini, come Donald Trump, ma di un periodo dove si sono riaffacciate in maniera imprevista e violenta le divisioni razziali. I due temi sono ovviamente intrecciati, se è vero che l'eredità di Obama - per quanto positiva - non riguarda la pacificazione etnica dell'America (che, anzi, è divenuta ancora una volta una pura utopia), e che solo una bassissima percentuale di elettori afroamericani ha concesso il suo voto a Trump.
Il ricorso beffardo, quando non apertamente provocatorio, al titolo dello storico film di Griffith (dunque un caso evidente di come una lettura estetica non possa dimenticare l'orrore del razzismo contenuto nella pellicola) è anche un invito alla lettura dell'opera di Nate Parker. La richiesta pare proprio quella di non concentrarsi sulla dimensione artistica - sebbene qua e là cercata con testardaggine, sfiorando certe soluzioni di arte contemporanea applicata al cinema, care a Steve McQueen e al suo 12 anni schiavo (qui per esempio la macabra "installazione" visiva dei corpi di schiavi impiccati nel bosco). Nate Parker, esattamente come lo schiavo predicatore che interpreta, funge da evocatore di un orgoglio nero e di una reazione biblica e vendicativa rispetto al sopruso dei bianchi. Indipendentemente dal valore artistico del lavoro, pur premiatissimo al Sundance Film Festival (The Birth of a Nation ha vinto il Premio del Pubblico e il Gran Premio della Giuria).
Da qui le cattive interpretazioni che la stampa ha dato della violenza, talvolta sadica, del film. Anche il già citato 12 anni schiavo conteneva dosi di tortura e raccapriccio insostenibili, ma la questione passò in secondo piano (idem dicasi per un film che, essendo diretto da un bianco, non viene molto citato come opera anti-razzista, ma dovrebbe esserlo: Django Unchained di Quentin Tarantino). Birth of a Nation trova nella violenza il suo discorso più sostanziale, proprio perché è nella violenza che si esprime la coazione del possidente bianco, nel considerare gli schiavi come sotto-umani o non-umani, nel poter disporre dei loro corpi come se fossero oggetti, nel confondere flesh (carne umana) con meat (carne da mangiare, da consumo).
E quando, di fronte allo scempio e al linciaggio delle famiglie di schiavisti bianchi uccisi inermi nel loro letto, donne comprese, lo spettatore si trova a sentirsi a sua volta vendicato, forse - più che vergognarsi per le proprie pulsioni - dovrebbe ammettere che l'esempio è perfettamente riuscito. Che Birth of a Nation possa essere stato il contraltare culturale delle azioni talvolta violente delle schegge radicali uscite dal movimento Black Lives Matter (quelle che hanno imbracciato le armi), invece, è più inquietante. Ma da lontano, seduti in poltrona, è difficile giudicare lo stato civile di una nazione lontana, per cui ci limitiamo a osservarne le premesse simboliche e gli effetti psicologici.