HARRY DEAN STANTON: LUCKY È TUTTO SUO, C'È TUTTO IL SUO CINEMA

Quello di John Carrol Lynch è il film testamentario assoluto di un interprete indimenticabile, dolce, cocciuto e profondamente americano. Al cinema.

Roy Menarini, sabato 1 settembre 2018 - Focus

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Harry Dean Stanton 14 luglio 1926, West Irvine (Kentucky - USA) - 15 Settembre 2017, Los Angeles (California - USA). Interpreta Lucky nel film di John Carroll Lynch Lucky.

Si è così a lungo parlato solamente di registi e autori, come effettivi creatori dei film, che a un certo punto qualcuno (lo studioso francese Luc Moullet) ha coniato il termine di "politica degli attori". Era un tentativo di bilanciare l'eccessiva attenzione posta sui registi da parte della critica e della teoria del cinema, per osservare con più attenzione quanto gli interpreti fossero capaci non solo di contribuire alla riuscita artistica del film ma anche di essere considerati figure poetiche al pari dei cineasti.

Al di fuori di qualsiasi discorso sociologico sui divi, infatti, anche volti comuni e corpi quotidiani si sono imposti con forza, bazzicando solamente ruoli secondari e marchiando a fuoco pellicole divenute patrimonio comune.
Roy Menarini

È il caso di Harry Dean Stanton, attore amatissimo dai cinefili e figura di interprete in grado di rappresentare sé stesso in maniera così coerente di film in film da farcelo considerare quasi un nostro conoscente. Ecco perché Lucky non avrebbe potuto essere dedicato a nessun altro attore, essendo completamente assorbito dal suo protagonista e totalmente costruito su di lui. Come se fosse un delicato dietro le quinte della vita reale dell'anziano Harry Dean Stanton, e perfettamente al crocevia tra Paris, Texas e Una storia vera (con un pizzico di Twin Peaks: David Lynch non a caso compare in una particina), Lucky si presenta come film testamentario assoluto. La storia successiva narra della scomparsa reale del grande caratterista, ma non è difficile intuire nella vecchiaia e nella fragilità del personaggio un'eco di un artista che sa bene di essere alla fine della sua vita e alla conclusione di una carriera appassionante.

Una scena del film Lucky.
Una scena del film Lucky.
Una scena del film Lucky.

Dotato di una voce al tempo stesso sottile e sgarbata, Harry Dean Stanton è in fondo sempre stato vecchio. Uno spilungone allampanato e profondamente americano, un personaggio di provincia e mai di città, un attore pieno di personalità che non si faceva mai mettere sotto dai registi, un tipo indipendente che - se lo volevano - dovevano prenderselo così com'era, dolce e cocciuto al tempo stesso. Tutte doti (raccontate nelle interviste dai suoi demiurghi) che appaiono in Lucky, dove curiosamente la consapevolezza della finitudine giunge solo dopo una caduta, come se anche a novant'anni suonati il protagonista non avesse ancora sospettato la presenza della morte nell'arco dell'esistenza umana.

Lucky ha una profonda fiducia nel potere anagrafico del cinema, e lo pensa ancora come registratore del reale, dispositivo in grado di dire sempre la verità sui volti e sugli esseri umani.
Roy Menarini

Ed è un po' vero che - dopo esserci sentiti raccontare che il digitale avrebbe messo in soffitta questa flagranza del vero grazie ai prodigi con cui si resuscitano attori morti con effetti speciali e ricostruzioni facciali - il cinema in larga maggioranza continua a non poter occultare i segni del tempo. E ogni volta che prova a farlo (come per esempio nei volti ringiovaniti di Michael Douglas e Michelle Pfeiffer in alcune sequenze di Ant-Man and the Wasp), non sortisce altro che un sospiro di sollievo e un'enfasi sul reale quando le espressioni e le rughe tornano a dire la verità, e ritroviamo il conforto dell'anagrafe in ciò che vediamo. E soprattutto leggiamo tra uno sguardo e una camminata tutti i ruoli passati di un grande interprete condensati in un ultimo ruolo, sia pure dentro un film fragile e imperfetto come Lucky (e come Harry Dean Stanton).

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