Stanley Tucci prosegue la sua personale analisi sui misteri della creatività. Lo fa da regista. Lo ha fatto (spesso) da interprete. Al cinema.
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A Stanley Tucci interessano i misteri della creatività. Pur attraverso una filmografia da regista striminzita, appare chiaro il fascino che esercita su di lui il gesto artistico, sia quello riconosciuto istituzionalmente - come pittura e scultura, in questo Final Portrait (guarda la video recensione) - sia quello più popolare (il cibo e le sue tradizioni, in Big Night), cui si deve aggiungere anche il formidabile scrittore homeless di Il segreto di Joe Gould e gli attori istrionici e truffaldini di Gli imbroglioni. A voler essere pignoli, anche nella torrenziale carriera da attore, Tucci ha spesso impersonato figure di creativi, dotati e appassionati come dimostra l'aver vestito i panni di Stanley Kubrick in Tu chiamami Peter, di uno sceneggiatore in Disastro a Hollywood, dell'entertainer luccicante in Hunger Games, dell'esperto di moda in Il diavolo veste Prada, e così via. E proprio sul rapporto tra arte e performance, regista e attore, in qualche modo ruota Final Portrait. Di film sull'arte ce ne sono stati a bizzeffe, specie di tipo biografico o - come richiede la recente tendenza - dedicati a singoli momenti della vita di un artista.
Non c'è il minimo dubbio su chi sia l'autore e chi il mezzo attraverso cui giungere al risultato: e forse solo un attore e regista come Tucci poteva intuire entrambi i sentimenti, quello di chi crea e quello di chi offre al demiurgo il proprio volto. La tela dietro a cui Giacometti si nasconde, pur sembrando un leone in gabbia, può anche essere paragonata all'apparato tecnico della macchina da presa: sempre di uno strumento di messa in forma del mondo si sta in fondo parlando.
Per il resto, Final Portrait costituisce un oggetto tutto sommato inedito nel panorama del biopic artistico, non tanto per la tensione tra genio scombinato e vita privata, quanto per il campo di forze che si scatena nell'atelier. Le sfumature dell'amicizia tra Giacometti e James Lord si giocano sulla tela bianca, in una perenne corsa all'incompiutezza.
Tucci forse invidia il tempo sospeso e squisitamente poetico di Giacometti, mentre l'industria cinematografica - per il suo essere macchina estetica collettiva, industria culturale - ha bisogno di tempi certi. Tuttavia proprio questo rapporto tra il fluire delle opere giacomettiane, che nella loro infinitudine suggeriscono lo scorrere del tempo e della vita, e lo spazio del set (dell'atelier e del dialogo con l'ispirazione) rimane la cosa più interessante di un'opera piccola e fuori-asse come Final Portrait. I film sull'arte sono sempre film sul cinema.