Ari Aster racconta una società disgregata in cui tutti sono soli, e lo fa in maniera grottesca e tragica, sgangherata e dissennata. Al cinema.
Il tuo browser non supporta i video in HTML5.
Se c’è un film che racconta l’America, oggi, è Eddington. Lo fa nella sua maniera grottesca e tragica, sgangherata e dissennata: ma è l’America che è grottesca e tragica allo stesso modo, sgangherata e dissennata allo stesso modo. E nel film di Ari Aster c’è tutto, c’è ogni virus che ha contaminato il corpo sociale degli Stati Uniti, e lo ha avvelenato, e dissolto. Il Covid, il razzismo, il suprematismo bianco, le follie spiritualistiche, il complottiamo, la proliferazione delle armi, i social usati come armi a loro volta, e gli interessi delle multinazionali, il dominio del capitale.
Ari Aster racconta un mondo spaccato, dissolto in mille schegge, una società disgregata in cui tutti sono soli, in cui non c’è dialogo, ognuno ha la sua convinzione, la sua ossessione. Ari Aster racconta il clima di sospetto diffuso, il razzismo latente e anche esplicito. E lo fa con un film che restituisce con enorme efficacia, anche nelle riprese, il senso dell’isolamento di ciascuno, mai in un vero dialogo con l’altro.
Tanti i temi che Eddington affronta. Il razzismo, per esempio. I ragazzi che manifestano per strada con i cartelli “Black Lives Matter”; proteste mostrate con tutte le loro ambiguità, dove l’idealismo dei ragazzi è astratto, confuso: la ragazza “impegnata” che rimprovera il suo ex fidanzato nero, che adesso ha una divisa e aiuta lo sceriffo, per non partecipare alle proteste: ma lei è bianca, privilegiata, lui è nero, ha una divisa, ha obblighi che lei non ha. Il film racconta bene il privilegio bianco, le divisioni di razza, e anche le eredità storiche dei rapporti con i nativi: il poliziotto nativo americano, la cui giurisdizione è appena un metro più in là; ma è, di fatto, un altro mondo. E le proteste legate al Black Lives Matter rimangono performance, senza riuscire a cambiare davvero le strutture di potere.
E le armi. Le armi, che all’inizio sono rappresentate solo dalla pistola alla cintura dello sceriffo. E pensi: non la userà mai. E ti confermi nell’idea, perché nelle scene di tensione lui sembra non pensarci neppure, all’idea di utilizzarla. Ma l’escalation del film è anche quella dell’uso delle armi, fino a un crescendo parossistico, grottesco e disperato.
E la corruzione della polizia. Il ruolo dello sceriffo interpretato da Joaquin Phoenix diventa sempre più ambiguo: difensore dei “diritti individuali” contro la pandemia, all’inizio pensi che abbia anche qualche ragione. Poi lo vediamo trasformarsi, diventare sempre più autoritario, minaccioso, nel momento in cui diviene sempre più solo sul piano personale.
Intorno a tutto questo, un clima di paranoia diffusa, di programmi radio e televisivi che diffondono complottismi, numerologie, profeti improvvisati: c’è di tutto. Quello che manca è un vero dialogo. E il Data center che dovrebbe essere costruito nei pressi di Eddington diventa il vero Dio, un potere astratto che non si vede ma si avverte.
Tutto questo emerge prepotentemente, senza una logica stringente, con un misto di ironia e surreale, di tragico e grottesco. Una cosa, su tutte, è chiara: quanto sia fragile la democrazia americana. Quanto profondi siano i solchi tracciati dalla paura, dalla disuguaglianza razziale, dalla polarizzazione delle idee.