WARFARE - TEMPO DI GUERRA, IL FILM CHE CI MOSTRA LA GUERRA COSÌ COM'È

Alex Garland e Ray Mendoza alla regia di un film-testimonianza di rara immediatezza e realismo. Un'esperienza viscerale che faremo fatica a dimenticare. Dal 21 agosto al cinema.

Paola Casella, martedì 12 agosto 2025 - Focus
Will Poulter (William Jack Poulter) (32 anni) 28 gennaio 1993, Londra (Gran Bretagna) - Acquario. Interpreta Erik nel film di Alex Garland, Ray Mendoza Warfare - Tempo di guerra. Al cinema da giovedì 21 agosto 2025.

C’è la “guerra da cinema”, ricca di eroismi e romanticismo, e c’è la guerra vera, fatta di estenuanti attese e momenti di terrore improvvisi. Warfare, codiretto da Alex Garland (già regista di Civil War) e dal veterano dei Navy SEAL Ray Mendoza, esce completamente dalla rappresentazione cinematografica tradizionale e persino da quella antieroica ma drammaturgicamente strutturata, alla The Hurt Locker o alla Niente di nuovo sul fronte occidentale, per regalarci un film-testimonianza di rara immediatezza e realismo. Warfare mostra la guerra com’è, non come ce la potremmo immaginare comodamente seduti sulle poltrone di un cinema, o sul divano di casa. Tanto è vero che un critico del Times ha scritto che è un film “tanto difficile da guardare quanto da dimenticare".

Questo realismo estremo è frutto di un lavoro polisensoriale che ci getta nel bel mezzo della scena, immergendoci in un’esperienza viscerale che è innanzitutto acustica: l’incredibile sound design alterna momenti di silenzio sospeso e irreale al caos frenetico delle sparatorie e alle urla agghiaccianti dei feriti. Anche l’elemento visivo è epidermico: ti ritrovi in mezzo al fumo e alle traiettorie impazzite dei proiettili senza capirci più niente, come succede a chi la guerra la fa davvero, e magari è giovanissimo, come i protagonisti di Warfare e come gran parte dei militari spediti nel mondo a compiere missioni impossibili.

Un cartello inziale avvisa che Warfare si basa esclusivamente sui ricordi di chi ha partecipato davvero all’assedio in Iraq, in cui si è ritrovato un plotone di soldati speciali americani, peraltro dopo aver brutalmente sfrattato una famiglia irachena. E infatti qui non c’è una prospettiva esterna di come siano andate le cose, ma un’aderenza totale al punto di vista dei protagonisti, servita in tempo reale, comprese la noia dell’attesa nelle scene iniziali e l’angoscia al cardiopalma di quelle d’azione successive.
 

In foto una scena del film.

Al centro della vicenda c’è il realismo dei corpi, che sono vulnerabili (nel senso etimologico della parola, che deriva da vulnus, cioè ferita) e possono essere fatti letteralmente a pezzi, pezzi che non restituiranno più l’interezza. Warfare ci ricorda che “il sangue è sangue”, non ketchup cinematografico. E che la propaganda militare che fa sembrare ai soldati che tutto sia sotto controllo viene contraddetta dai corpi maciullati a caso, una volta sul campo. La cinepresa si mantiene ad altezza uomo proprio perché è da quell’altezza, non da quella di un drone, che si misura la guerra.

Warfare spinge anche a considerazioni ulteriori sulla differenza fra la guerra tecnologica fatta di strumenti sofisticati che osservano da una distanza di sicurezza e la presenza fisica sul campo; fra certe definizioni militari asettiche come “operazione di bonifica” e la realtà dei corpi e della paura dei civili (e dei soldati) quando queste “operazioni” hanno luogo; fra la volontà programmatica di considerare quei civili (e i soldati di un altro Paese) come subumani sacrificabili e la propria coscienza.

Sui crediti finali appaiono le foto (molte delle quali oscurate) dei veri protagonisti della storia, ad aumentare ulteriormente il realismo di un film che ne ha fatto la sua cifra narrativa, proprio perché non ci si possa cullare dell’illusione che “questo succede solo al cinema”, e che gli attori in scena siano tornati a casa sani, salvi, e tutti interi: perché per molti dei soldati in Iraq, nella realtà, non è stato affatto così.

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